Erminia Passannanti. Machine. Raccolta bilingue. The language of the senses. Laura McLoughlin

 

Laura McLoughlin

Il linguaggio dei sensi

Postfazione alla raccolta Machine (2008)  

LAURA INCALCATERRA MCLOUGHLIN

La poesia di Erminia Passannanti, tra Amelia Rosselli e Sylvia Plath


“Il genio non è il genio

di una sola mente”

(E. Passannanti)

Nella raccolta Mistici, di Erminia Passannanti, il poeta è inginocchiato a terra come in preghiera: “chino e proteso come in estasi”. O così sembrerebbe. In realtà è morto, ucciso da un proiettile alla tempia: “un foro di pallottola visibile/ al lato della tempia”. L’altra ipotesi e che il poeta visionario conosca la propria marginalità (“percorsi di solitudine/ disperazione e morte”), e si sconfessi, suicidandosi, per negare, ma insieme celebrare la propria vicenda artistica, come accadde a Sylvia Plath e Amelia Rosselli. Ma esiste l’ulteriore possibilità che il poeta non sia affatto morto, e finga una posa retorica per esaltare la performance (“medita il Dialogo/ tra Saggezza Muliebre/ e Virile Incertezza”).

Sono passati poco più di una decina di anni tra la pubblicazione dei primi 30 testi poetici della giovane Passannanti – estratti da Noi altri (1993) e apparsi nell’antologia I cinque poeti del premio Laura Nobile – e l’ultima raccolta, Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie del 2006. In quest’arco di tempo sono state pubblicate le raccolte Macchina (2000), Exstasis (2003), Mistici (2003), La Realtà (2004) e Il Roveto (2005), oltre a undici liriche antologizzate in Poesia del dissenso (2004), e svariate altre in riviste di poesia e sillogi a tema.

Per la poesia di Passannanti si è parlato di “concretezza (talora una luminosità) tutta mediterranea”[1], di “logica fantastica”[2], di “effetto [...] surreale, mediato da una predilezione per il mondo onirico”;[3] di “linguaggio di matrice religiosa”[4]. Romano Luperini, nella sua introduzione a Macchina, è stato il primo ad indicare una correlazione chiara tra accostato i suoi versi e quelli di Plath e Rosselli,[5] e tuttavia sono rinvenibili – soprattutto nelle liriche di Mistici, Il Roveto, Il Torsolo del Ventre ed Altre Fandonie – echi di vari autori stranieri da Alfred Jarry, Eugene Ionesco, Antonin Artaud,[6] a Samuel Beckett,[7] e sul piano teorico, gli studi di Luce Irigaray e Kristeva, di quest’ultima soprattutto, come spiega l’autrie, Soleil Noir. Dépression et Mélancolie e il Bataille di Théorie de la Religion.

1. Strategie intertestuali

I testi di Passannanti possiedono un alto grado di intertestualità come annunciano i versi epigrammatici “Il genio non è il genio/ di una sola mente”.[8] Si avvalgono di un fitto intreccio di registri espressivi, con dramatis personae dalle esperienze umane, spirituali e stilistiche liminali, che il lettore è chiamato a figurarsi, sia nel genere sia nel carattere. Ciò avviene rispondendo ad un niveau fantastico e metaforico che rappresenta la base di una poesia che si vuole di ricerca, non già autobiografica. La poesia che la Passannanti si è determinata a scrivere, fondandosi sull’intertestualità e sull’eclettismo, colpisce per la sicurezza con cui, di volta in volta, la voce narrante realizza un complesso ibridismo di voci. Ed in effetti dalla lettura di queste poesie nascono spunti che fanno appello alla psiche del lettore come una miniera di materiali che mostrano percorsi sotterranei.

Leggere la poesia di Passannanti significa quindi intraprendere un viaggio intertestuale di corrispondenze ma anche di svolte e distacchi dove l’intertestualità va letta come coincidenza e insieme superamento delle poetiche altrui. Significa, di conseguenza, entrare in contatto con una scrittura proteiforme, che sa caricarsi di tensioni – e all’occasione farsi perfino provocatoriamente classicista – pur rimanendo graffiante ed autoironica nei propri procedimenti di ricerca. Si tratta di una scrittura che propone versioni radicalizzate delle forme e dei modelli tramandati, e che, come avviene nella poesia moderna, mostra una sostanziale sfiducia nell’Io lirico integrale. In tale percorso, incontriamo diversi personaggi. Una libertà, questa, che s’autoregola e che prende a punto di riferimento valori suoi propri, come in “Di mia madre”:non chiedermi perché/ l’insondabile occhio che mi guarda/ equivalga al catino/ in cui mi specchio/ pettinandomi all’alba/ quando rammendo/ i discorsi inconcludenti/ di mia madre […].[9]

“Non si può separare il corpo della poesia come memoria, tradizione e come attualità”, spiega la Passannanti, “dal corpo della madre, dalla fede nel suo valore fondante, immaginare l’uno senza l’altro”.[10] Nel fare poesia del corpo non si può dissociare la “riflessione sul corpo” dal corpo stesso, laddove il corpo è in Passannanti sempre quello materno, essendo una delle sue più intime espressioni la stessa lingua creativa.

A proposito di questa poesia, Antonella Sartor ne ha così commentato il linguaggio: “Tutto ruota intorno alla domanda “ma, dov’è mia madre?” che sembra tagliare nettamente in due parti la poesia.” Scrive Antonella Sartor: “Non vi è dubbio che, essendo una poesia moderna, con i suoi caratteri d’ambiguità polisemica, di allusività ed elusività, di concentrazione semantica, necessiti di una particolare riflessione sui dati impliciti e presupposti, dove alcune delle figure (analogia, metafora ecc.) vengono spiegate meglio tramite l’uso di determinati fenomeni discorsivi.” [11]

Oltre alla relazione creativa della figlia (la poetessa) con la madre (la poesia), i versi qui citati avallano un’interpretazione femminista della scrittura di Passannanti.

I testi in cui le donne di una stessa famiglia o gruppo sono vicine, nella poesia di Passannanti, riflettono sull’identità femminile in senso antropologicamente profondo, sia a livello personale sia culturale ed epocale. Il mistero dell’identificazione con la madre è un punto cruciale alla loro comprensione: e qui ritorna la problematica dello specchio.

Innanzitutto, identificare una scrittura femminile in opposizione ad una maschile, presuppone l’esistenza di un poeta/una poetessa la cui identità di genere escluda il suo contrario. Questa interpretazione ignorerebbe l’uso, da parte della Passannanti, di personae di varia identità, o di caratteri appartenenti a volte perfino al mondo delle cose inanimate, come nella “rivolta degli oggetti” della poesia “dialogo tra due sedie” (“se non fossimo sedie/ cosa faremmo?”),[12] oppure di identità iperreali e surreali, che non è dato di conoscere completamente, ideate seguendo una logica che rifiuta la separazione tra oggetto e soggetto, e concepisce ogni cosa in continuo sviluppo e trasformazione. Ragion per cui, in questa scrittura, la voce poetica contiene in sé il maschile e il femminile, il nobile e l’infimo, l’individuale e il collettivo.

La Passannanti mi ha fatto notare come nelle sue poesie, la madre sia rappresentata come la “cora semiotica” di Kristeva, colei che dona significato profondo, o anche come una figura tutelare, sorta di “benefattrice”, come recita una delle poesie dedicate alla madre, in Mistici: “Mia madre era la Madonna”. L’entità antagonista è altrettanto spesso rappresentato come un burocrate, colui che “compra” – sorta di padrone della vita altrui, che abusa della controparte debole, uomo o donna che sia.

Il rifiuto della violenza, delle disuguaglianze sociali e di genere è il rifiuto non già del maschile genetico, che questo tipo di poesia, infatti, accoglie come pari vittima dell’essere al mondo, ma della società patriarcale predatoria così come si è costituita, la quale continua ad imporsi sulle donne, sugli uomini e sui dissidenti attraverso strategie economiche e di sopraffazione di cui la guerra, per dirla con Foucault, è lo stesso motore istituzionale. La rivolta procede dal corpo della donna e investe gli uomini, che l’autrice considera ugualmente oppressi dal sistema. Questa dissidenza riversata nella forma, che nelle recenti raccolte di Passannanti, come Il roveto e Il torsolo del ventre ed altre fandonie si accompagna ad una crescente ricerca formale, è un aspetto fondamentale del discorso di Passannanti congiunto anche sul piano teorico allo sperimentalismo linguistico della Rosselli, da quest’ultima teorizzato in Spazi metrici (1964), e messo in atto in Impromptu (1981), alla torsione ritmica e alla manipolazione semantica.

Sul piano stilistico, dunque, sebbene sia possibile rintracciare l’eco di metafore plathiane, soprattutto nella prima produzione, ovvero nei testi inclusi in Macchina[13] e In Iugoslavia con i piedi a terra, Passannanti procede in modo sperimentale, più vicino a quello della Rosselli, ad una demistificazione della realtà che coinvolge tutta la struttura logica del reale. Quello che resta dell’influenza della Plath, attraverso l’analisi e la traduzione dei suoi testi, è l’intensità passionale e al contempo la spietata crudezza del linguaggio figurato, desunto dalla pratica della traduzione dei versi plathiani di Ariel: “Ogni poeta, ai suoi esordi, avverte un ritegno verso certi tabù linguistici, glottologici. Tradurre Plath mi ha insegnato a superare questo riserbo”.[14] Il linguaggio figurato tramite il dialogo traduttologico impara ad emanciparsi, generarne variazioni, a deformare il profilo delle cose, ad offrire originali morfologie linguistiche. L’impatto della traduzione poetica è dunque notevole in Passannanti, come del resto in tutti i poeti che si siano dedicati a questo esercizio ermeneutico, come la stessa Rosselli. La Passannanti nota: “tradurre versi altrui non è che una sorta di anticamera utile alla propria futura pratica: disinibisce, coltiva, rende più esperti, mette insomma in intimo contatto con i propri modelli.”[15]

Il degenerare di persone e cose dal loro stato di integrità iniziale, l’idea stessa di origine come nucleo identitario, nelle poesie di Passannanti, ha connotazione problematica, come emerge con chiarezza anche in Serie ospedaliera, “Cercando una riposta ad una voce inconscia (Rosselli), e in “Elm”, “I know the bottom, she says. I know it with my great tap root./ It is what you fear” (Plath).[16]

Pur tendendo a concettualizzare il soggetto trattato, Passannanti non persegue la metafisica tout court, ma lega l’esperienza della poesia a quella del soggetto, alla sua storicità, attraverso il linguaggio della fisicità come dimostrano i frequenti riferimenti alla carne, al sangue, alle ossa, alla materialità, indici di nascita e morte. È come se il corpo rappresentasse quell’orizzonte di stabilità, che giace tra il testo ed il lettore.

Il corpo – martoriato, mistificato e venerato – è posto su un palco, al contempo patibolo e proscenio, come nella poesia “Il sentiero delle more”, dove Giovanna D’Arco è il rogo stesso: “io stava come presa da un delirio di voci/ e volentieri mi denudava il petto/ e me ne andava vagando senza meta/ finché qualcuno mi riportava a casa”.[17] In quest’ottica va inquadrata l’instabilità della dramatis persona dell’eroina: “morta che fu l’anima sua dinanzi/ e le membra vedevo agitarsi nell’aria/ e pulsando sgorgare la ferita/ là dove le sue reliquie/ tengono a coppa il sangue.[18]

Come suggerisce Michel Foucualt, il corpo è il luogo dell’abuso che il potere ha sul singolo. Il corpo diventa allora veicolo della conoscenza critica del malfunzionamento del potere. Non di rado il corpo umano si trasforma nel corpo di un animale: “E resterà la luce/ nei nodi legnosi dove/ avendo versato/ dorme ora/ paga l’asina.”[19] E, ancora: “quando mi guardi mostro/ la faccia civile/ di una volpe raminga/ travestita da dama/ che di giorno ti punta/ e di notte ti sbrana[20]. Il ricorso all’allegoria è chiaro già in un testo del 1993: “Quando un grillo un topo un rospo/ dicasi te stesso/ e tu per qualche nesso/ sballato salti il fosso/ credendoti in diritto/ di ritenerti pazzo […]”.[21] O in “Lumaca”, dove l’Io sperimenta contemporaneamente l’animalità, l’umanità e la sovraumanità, fuori e dentro l’universo logico, privo di Dio:

[...] Cado/ nel fango, il fango/ dell’oblio. [...] Voglio restare// in questo fango beato/ che mi hai mostrato./ Ci ho messo trent’anni a tornare./ Le mie possibilità sono altre:/ decidere di essere un altro animale[22]

La lumaca, nella poesia della Passannanti – così come l’ape nella sequenza plathiana dedicata alla personificazione di determinate qualità femminili tramite l’ape – è, allegoricamente, sempre metafora di raccoglimento e pienezza dell’essere, di perfezione geometrica e si autonomia, di solitudine di percorso e autoredenzione. Allo stesso tempo, la sua fragilità strutturale è indice di una precarietà connaturata al suo “essere-ci”. Questa creatura misteriosa e delicata, capace di lasciare una scia luminosa – personificazione della madre, ma anche dei referenti letterari – circoscrive un itinerario poematico rivelatore della caducità che attiene al mondo del disordine.

La mediazione persona-animale, il “tu” della volontà dialogica, presente anche ne La libellula di Rosselli, è qui una ricerca di immanenza, nel senso descritto da Bataille: “L’animalità è l’immediatezza, o l’immanenza”[23].

Così, in “Lumaca”, la caduta nel “fango beato”, ovvero dell’“oblio”, metaforizza un’esistenza senza tempo e senza memoria, in cui è possibile dimenticare se stessi, compenetrarsi nell’involucro dell’Altro da sé, nella madre. La poesia “Lumaca” è, infatti, un inno alla madre.

Un’altra poesia dove l’Io è allegorizzato nell’immagine del lupo che invita a cena il debole agnello, è “Fossato”: “come il terrore/ o l’impeto/ che tutto// oggi lo scrive/ il poema/ ora che a una pozza melmosa/ si disseta// che a bocca piena/ chiede: voi/ non restate a cena?”[24] L’esperienza dell’uscita spaventosa e fantastica dalla unicità dell’essere verso forme eterodosse ed oniriche, è comunicata in “Più non ero io”: “Ogni volta che nei miei sogni/ esco da un edificio, è sempre buio,/ c’è sempre un pericolo,/ un nemico che mi insegue/ in controluce.[25] La confusione di genere in quest’ennesima, ambigua dramatis persona, è data dal volere appartenere contemporaneamente tanto al corpo della madre quanto a quello del padre, alla loro emotività e storicità, come si evince in “Parigi-Baghdad”:

Malinconiche volte in cui/ mi sveglio altrove/ forse da uomo giunta/ a qualche boulevard,/ un mio padre tornato/ per nostalgia al mondo,/ non qui, non per me.// O una qualsiasi lei/ nella piazza gremita/ che d’amore s’effonde/ presa in quel verde fiume/ che inalterato scorre.[26 

In questi versi torna l’essere come vicenda storica, generazionale, ed insieme dilemma affettivo ed esistenziale. Al risveglio dal sogno di un viaggio in treno – esperienza che evoca un viaggio di deportazione – l’Io si avverte uno e scisso in un moto che oscilla dal maschile al femminile, memoria e presente, qui e altrove, singolarità e collettività: “È così che a quel nome/ non bastano i ricordi/ e nel corpo si cede/ per una faccia nuova/ ad ogni svolta ignota.”[27]

 

2. Versi dell’eresia

La poesia di Passannanti presenta un panorama ad alta valenza simbolica, in cui anche la struttura formale ha valore di simbolo in quanto il linguaggio allegorico s’interroga sulla sua tendenza apparentemente ambigua, alogica, sottolineando l’infinita pluralità del senso che in questa emanazione rischia annichilirsi: “Un dialogo privo di senso,/ di un senso lampante, parlavo/ a doppi sensi [...]”[28] Tuttavia, il linguaggio verbale non è il solo modo di “rappresentare” la realtà esteriore o interiore: c’è quello figurato che interviene a porre rimedio alla comunicazione ottenuta tramite la parola. In questi versi, la comunicazione si muove verso modi dell’espressione non canonici, dischiudendo interessanti ipotesi di ricerca scritturale. E dunque ci si imbatte nel continuo approfondimento del senso e della vertigine, della sacralità della vita (immanente e laica) e della sua negazione, della concretezza e del mistero tramite figure retoriche solenni ma anche ironiche, di una giocosità che stordisce, poesie ricche di sinestesie come a scongiurare il rischio della concretezza altrove desiderata.

   Se si volesse cercare un filo conduttore delle raccolte che Passannanti ha pubblicato a tutt’oggi, lo si troverebbe nell’enfasi posta sulla proclamazione del diritto alla libertà espressiva – libertà di sentire, di credere, di contraddirsi, di dissentire. Si apre così un varco in cui la poesia, sciolta dalle restrizioni del Logos come ordine logico, può intercettare spazi propri in cui sperimentare un’esuberanza di senso e di modi. È lo spazio della diversità, delle scelte singolari, dell’ “eresia”.

Accogliere la “temerarietà” creativa come momento di libertà d’espressione individuale, opposizione, significa ammettere che il linguaggio, la comunicazione, non è fatta solo di segni logici. Ampio spazio è dunque concesso alle debolezze o ai cedimenti del sistema simbolico, alla follia che induce “l’infermo a scrutare la vita in modo storpiato”,[29] e al suo inerente vitalismo politico.

Nella Passannanti, lo scrivere delle figure edipiche non presenta conflitti ma anzi produce un valore positivo. Il padre è gigante di bontà, la madre è madre-terra, o, anche, bambina da accudire, vergine e Madonna.

In una poesia della Passannanti dedicata ad entrambi i genitori, “Prima del 2000”, come reagendo alla minaccia sempre presente di una frana del sostrato parentale, si legge il desiderio totalizzante che padre e madre anche da morti si ricombinino in un genetico intreccio di possibilità oltre la prigione dell’Io, e ad essi è attribuita una capacità di permanenza, caratteristica di una generazione come la loro, resistenziale:

 

Giacciono pazienti come semi

sotto una spessa coltre di ghiaccio

sottratti all’emozione.[...]

padre madre

siete riusciti a eclissarvi prima del 2000

a liberarvi dell’individualità

deformante – del lato aberrante – [30]

 

“Giacciono” introduce il tema dell’inanimato, della decomposizione e morte, eppure la corrispondenza dei genitori deceduti con i “semi” presuppone un’idea di rinascita così come una fiducia nei cicli della vita. Padre e madre, nella passione edipica, sono un centro inequivocabile e non privo di contraddizioni, tuttavia coeso nella diversità, nucleo di senso affettivamente profondo che solo la morte giocoforza separa, elementi di una triade che è la sola ad avere senso, ciascuno dei quali contribuisce a creare un punto di vista problematico, una eredità generazionale posta sulla coscienza come carico, storia che difende la propria prospettiva. Questa equivalenza tra madre e padre nella diversità (“siete riusciti ad eclissarvi […] a liberarvi dell’individualità/ deformante – del lato aberrante”) crea nella figlia un vero dilemma d’immedesimazione. Un moto rigeneratore nella morte si trova in una delle poesie più intensamente liriche di quelle incluse in Macchina, dal titolo appunto “In Memoria”:


Vero triste dettato

mentre con la guancia premuta

contro la terra nuda

vedevo la bambina tutta sporca

corrermi incontro per corridoi d’erba

e l’aria intorno frolla

era come la vita sotto la pioggia

quando con padre e madre.

Tetre carcasse abbandonate

nei prati verdi delle cose tolte

l’una arrugginita coricata sul fianco

quasi dormisse dove spuntano

nell’ombra bacche bianche

l’altra rimasta in piedi

incoronata di malva e pungitopo

nei suoi tondi segreti d’oltresponda.

Lenta lumaca dall’involucro leso

in cui il cielo rimbomba

tra le pareti concave – presa

così nei suoi umori autunnali

che dalla terra sa come il piede

s’infossa – come in un solo mattino

si schiudano le larve inosservate[31].

 

L’incipit detta un impegno, e non una  rassegnazione, a rimettersi all’esempio dei genitori, i quali, pur essendo ormai figure dalla funzione storica obsoleta, apparendo nella vecchiaia e nella morte figure irreali e fragili, di profondo abbandono, continuano a conferire orientamento morale e immaginativo. Padre e madre sono qui re-vivificati, fatti germinare, nella consapevolezza heideggeriana da sempre comunicata alla figlia, dell’ “essere per la morte” e, con moto diametralmente opposto ma conciliabile, della certezza della morte come presupposto per la rinascita. Il “vero triste dettato” non è che l’inevitabile momento dell’agnizione, che, partendo dall’innocenza, perviene all’accettazione. Allo stesso tempo, quei “termini di copertura” a cui si riferiva Todorov, vengono rivalutati in questi versi per dare voce a stati di coscienza e a procedimenti del pensiero non “ortodossi”. Si legga, inoltre, a proposito della violenza delle immagini, la poesia “Ricordo”, in cui si fa strada un moto disgregativo che Passannanti usa per introdurre, all’interno dell’ordine sociale e simbolico, la falla rivoluzionaria di cui parla Julia Kristeva:

 

Ricordo l’attimo in cui

Legati alle caviglie i polsi

fui trascinata fuori nel giorno

ibrido

La galassia della morte

spaziava indenne

E riportava al senno

La fievole mia immagine

Ridotta a tre brandelli

Di cui uno del ventre

Era l’espulso fetido

Centro[32].

 

In questo testo eretico rispetto alle aspettative del genere, la donna mette in discussione il centro di significato del proprio corpo, che è visto come una “galassia della morte”, problematizzando di conseguenza la vita stessa con un nesso simbolico che lega il dolore esistenziale all’immagine di un feto espulso dal ventre che l’ha concepito. Ma qui non si respinge tanto l’idea di maternità, il feto del nascituro, bensì l’essere stata feto (“fui trascinata fuori”), che nel venire al mondo condanna a morte la propria madre per l’ineluttabile, insensata logica del succedersi delle generazioni nel segno di un ciclo che non si può spezzare di nascita e morte. Il corpo che vive e patisce questa crudele logica, attraversa un processo che conduce al riscatto della vicenda umana, la quale non è mai personale (“la galassia della morte”), bensì generale, e dunque di entrambi i generi.

Il tema dell’interruzione della gravidanza (“l’intervento che mi libera/ del mio fardello”),[33] nella poesia “La zona Empirica”, recitata da un alter-ego febbricitante (“Ho raggiunto il limite esagonale”[34]), nasconde dunque il tema ben più ampio del fardello della vita, del suo peso insostenibile, qui metaforizzato in un disfarsi dell’estraneo che è in ciascuno. In questa poesia incontriamo un soggetto monologante, verosimilmente femminile, che ci interpella, appellandosi alla nostra opinione rispetto all’esperienza assolutamente dolorosa e contorta dell’esistere schiacciati dal giudizio di Dio, e dell’essere venuti al mondo in un dato corpo. Si tratta di un’esperienza originaria (“basti pensare/ alla radice che marcisce: marcisce sempre”) drammatica, oscura, colpevole – complicata dalla difficoltà di comunicazione, di dialogo con l’Altro. Questa introspezione implica un’acuta percezione dei torti fatti e dei torti subiti:

 

Un dialogo privo di senso,

di un senso lampante, parlavo

a doppi sensi, volendo intendere

il procedere attuale dell’intervento,

l’intervento che mi libera

del mio fardello.

Liberamente, col forcipe, estraggo

il dramma dalla fonte buia,

ripercossa da accadimenti esotici.[35]

 

Una peculiarità di questi versi è la soppressione e al contempo allusione (“vi provvedo in molti modi, anche uccidendo”) alla sostanza del conflitto della maternità attraverso la complicazione della forma che l’occulta.

Si ha l’impressione che l’“estrazione” traumatica, abortiva, a cui la voce fa riferimento, alluda ai sette giorni della Creazione, presentandoli come una lotta tra Dio e l’Io. Questo trauma attiene dunque al soggetto stesso, alla sua venuta al mondo nel genere femminile, una difficoltà millenaria, tramandata. I versi sopra citati, apparentemente oscuri, criptici, agevolano tuttavia la lettura di “Ricordo”, dove la voce narrante riporta il senso straniato (“la galassia della morte [...] riportava al senno/ la fievole mia immagine”, “l’espulso fetido/ centro”) all’interno di una simbologia del numero tre – al contempo esistenzialista e religiosa – (“ridotta a tre brandelli”) e della forma geometrica del cerchio (“legati alle caviglie i polsi”, un verso che evoca appunto un’immagine circolare). Sennonché la simbologia è rovesciata: il cerchio, simbolo junghiano della totalità della psiche, perde il suo “centro”, che viene “espulso”, e la perfezione del tre viene sminuita dal participio dell’essere “ridotta” e dalla connotazione negativa dei “brandelli”, da cui l’idea di risonanza e deriva generazionale.

 

3. Identità di genere e la questione della “voce”?

 

L’Io ospedalizzato, abortivo, suicida, malato e prossimo alla morte è certamente il centro di molta poesia e prosa plathiana, a partire dalle sue Juvenilia, fino ad Ariel. Dramatis personae di genere femminile nelle stesse condizioni liminali come proiezioni dell’Io autolesionista si rintracciano sia in Rosselli (La libellula, Serie ospedaliera) sia in Passannanti, laddove nel poemetto di quest’ultima, In Iugoslavia con i piedi a terra (1993), il soggetto malato è dichiaratamente sua madre. La lingua materna, la chora semiotica kristeviana, perfino nella disfunzione afasica, permane come la culla dove la poesia trova rifugio dal vuoto del mondo. Il corpo materno malato sfugge alla sfera della prassi e diventa materia artistica.

Come ha sottolineato la Passannanti nel suo citato studio sulle metafore ossessive nella poesia di Plath, condizioni patologiche, psichiche o fisiche, reali o immaginarie, innescano presupposti in cui il pensiero simbolico prende il sopravvento. Anche in Passannanti emerge la presenza persistente di una tematica che prende a oggetto il disagio della mente in un corpo invalido, e questo è particolarmente evidente nella sezione conclusiva di Macchina, “In Jugoslavia con i piedi a terra”, il cui soggetto è un io che ha perso capacità di strutturazione coerente del discorso, ma non la volontà di comunicare il senso dei propri pensieri (“non riuscivo a comunicare all’esterno i dati della perplessità”): “Non avevo il Principio – che è il Numero./ Il numero che mi doleva nei ricordi.”[36]La malattia non riesce a censurare il bisogno espressivo. La destrutturazione del linguaggio permette anche la destrutturazione del dogma; “non avevo il Principio – che è il Numero”, un riferimento evidentemente al Numero Perfetto: “quel numero chiaro, dai chiari principi morali”, che tuttavia ha uno “sfondo malefico” in cui gli “angeli” si confondono con i “diavoli”. Si entra così in un tunnel metapoetico ricavato da ciò che turba. Elementi della quotidianità sono legati indissolubilmente a riferimenti religiosi, come in questa sequenza onirica, presentata con un linguaggio piano, esplicante:

Da sempre afferro

un qualche elemento,

l’incisto nel sogno,

nell’immagine afona

in cui io e te cerchiamo

sotto il cofano della macchina

il corpo inerte del motociclista

che abbiamo investito,

il lemma fideiussore

della normalità.

Così in un turpe ingorgo

d’eventi, verificando

piaghe e ferite, l’identità contusa

presso l’infetta lesione sul costato,

vedo il defunto riprendere vita,

levandosi in piedi per proclamare

un verso,

rantolo, desiderio…[37]

Morte e desiderio, visionarietà, erotica e misticismo, temi rosselliani che appaiono prevalentemente in Documento (1976) e Serie ospedaliera (1969) sono tematiche-cardine della poetica di Plath in Ariel (1965), Winter Trees (1971), The Bell Jar (1963) e Passannanti in Mistici, Exstasis, del 2003. Nei versi citati, il Cristo-motociclista è investito da una forza irrazionale, che non è solo quella delle libere associazioni o del deragliamento onirico, perché l’analisi dell’accaduto viene attuata in situ. Il Cristo morto, tuttavia, si rialza e si allontana come Lazzaro. All’insegna di un’eresia “sublime”,[38] si procede ad una sistematica messa in discussione e abbassamento di livello dei grandi misteri della fede, come suggerisce la voce della vecchia narratrice, ne La Chiesa di Dio, di Gesù, della Madonna, degli Angeli degli Ultimi Dubbi. Il testo è interessante trascrizione delle convinzioni della madre dell’autrice in una fase avanzata dell’età senile, propone un’analogia tra la prima giovinezza di Maria, quando partì alla volta della casa della cugina, Elisabetta (incinta di Battista), e l’innocenza abusata delle giovani orfanelle che, abbandonate in collegio, non hanno l’assistenza e la cura di una famiglia:

“Si è trovata questa giovanissima donna, incinta senza sapere come. Capisci? Allora, è comprensibile che si sia giustificata dicendo: ‘Sarà stato lo Spirito Santo!’”[39]

La vita del figlio-Gesù appare un magico, un tragico ed un umano accidente: “Aveva Dio bisogno di essere dimostrato?”[40] Il titolo, infatti, giustappone ai nomi della cristianità, l’ipotesi del “dubbio”.[41]

Altrove, in altre raccolte della Passannanti, come Mistici ed Exstasis, incentrate sui temi della spiritualità percepita come sentimento e vissuta come fantasia di un mondo poetico individuale che affluisce nell’antropologia culturale del Cristianesimo, la religione “è un nodulo che duole se toccato”.[42]

In questo racconto, come nei versi della poesia “Teoatropologia”[43], emerge il sentimento religioso come mistica della soggettività, che non ci si allontana mai dalle categorie dell’umano: “Era la Madonna a diffondere questo mito. Era lei che metteva in giro tutte quelle voci su suo figlio”.[44]

È la Madonna, dunque, la grande e vera affabulatrice, colei che ha creato ex-novo, il mito del proprio figlio. Il testo propone una coincidentia oppositorum la quale, piuttosto che dissacrare le figure di culto, ne riconferma l’importanza auspicando un ritorno ad una spiritualità laica.

Come nella Rosselli de La libellula (“La santità dei santi padri era un prodotto cangiante”), l’intenzione della Passannanti è riconoscere che la storia della Chiesa cattolica, quale creatrice e paralizzatrice di valori, dogmi, credenze, ha una cruciale responsabilità nella decadenza del sentimento religioso. Allora, il discorso “umano troppo umano”, associato a certe figurazioni sacre, qui non è irriverente, ma espressione di un desiderio di umanizzazione del sacro, che il mondo cattolico ortodosso, con la sua rinuncia alla dimensione “della carne” legata al concepimento di Gesù, ha sempre voluto reprimere. 

Il racconto “La chiesa di Dio” non è una presa di posizione contro le posizioni antifemministe della società cattolica patriarcale sessuofoba, che, nel giudizio sulla sessualità, ha sempre inflitto punizioni soprattutto alla donna. La Passannanti tratta con tagliente ironia il primato maschile della chiesa, come si legge nei versi di “Correcta”: “primo: la peccatrice/ non ha diritto di ficcarsi in chiesa// [...] dopo quaranta giorni, con purissima acqua/ come all’ingresso d’una vita nova,/ si lava il ventre della condannata”. [45] L’autrice ha chiarito:

In Mistici e ne Il roveto, il problema del peccato e della purgazione rimanda al rapporto della teologia cristiana con la dogmatica. Ormai la nostra relazione con Dio, se pure esiste, è totalmente mediata dalla natura peccaminosa del mondo secolare, la cui distanza abissale dalle sfere della grazia è mediata da Cristo nel suo ruolo più vero ed umano di capro espiatorio, dalla Madonna, come madre consolatrice, dagli angeli e da tutte le figure collaterali di santi e martiri.[46]

Il rituale della purificazione dal peccato è legato alla fisicità del corpo e perfino al suo eros che avanza nella mortificazione della penitenza. In questo testo pseudomedievale, l’autrice stabilisce un ricongiungimento con un livello più intimo di spiritualità, libero dalle pratiche di punizione e remissione della religione ufficializzata (percepiti come tranelli della “tradizione”), come si legge anche ne “Il Roseto”:

“E sono questi Infanti orgogliosi per carità diffidenti a negare – non le Sacre Scritture ma il tranello alla fede e alla morale [teso dal maligno]. La Tradizione smentiscono in cui pure sprofondano per orgoglio e pretesa sufficienza intinta del sangue del soffio vitale.”[47]


Nota Biografica sull’Autrice

È nata a Serre (Salerno) e vive tra Oxford e Salerno dove attualmente insegna in un liceo statale. Nel 1988 si è laureata in Letterature straniere moderne con una tesi sulla poesia di Sylvia Plath. In Inghilterra ha conseguito un dottorato di ricerca (Ph.D.) con una tesi sull’opera di Franco Fortini (University College London, UK, 2004) ed un secondo dottorato di ricerca (Ph.D., 2014) in Social Sciences and Media Communications (Brunel University, 2014, UK) sul soggetto del Cinema Italiano e la censura religiosa. Oltre a numerosi e contini riconoscimenti, ha vinto il primo premio di due edizioni della rassegna di poesia “Laura” Nobile, il primo premio del concorso di poesia “David Maria Turoldo”, e per la saggistica il primo premio del concorso “Franco Fortini”.

Tra i suoi libri di poesia si ricordano Noi Altri (1993, inclusa nell’antologia “I 5 Poeti del Premio Laura Nobile”, Edizioni Vanni Scheiwiller, Collana All’Insegna del Pesce d’Oro), Macchina (Manni, Lecce 2000, vincitrice del Premio “Laura Nobile 1995”), Exstasis (Lietocolle, Fallopio 2003), Mistici (Ripostes, Salerno 2003), La realtà (Ripostes, 2004), Il Roveto (Troubador, Leicester 2005), Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie (Troubador, Leicester 2006). Sulla sua poesia è uscito il saggio di Laura Incalcaterra McLoughlin La macchina dell'Estasi (Lietocolle, Fallopio 2007).  Le sue poesie sono incluse in innumerevoli antologie prodotte in Italia e in Inghilterra.


Raccolte di Erminia Passannanti

 

I 5 Poeti del Premio Laura Nobile

(Vanni Scheiwiller, 1995)

Macchina

(Manni Editore, 2000)

Mistici

(Edizioni Ripostes, 2003)

Exstasis

(Lietocolle Editore, 2003)

La realtà

(Edizioni Ripostes, 2004)

Il Roveto

(Troubador Publisher, 2005)

Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie

(Troubador Publisher, 2006)

Il Morbo

(Edizioni Biagio Cepollaro, 2007)


 

Inclusione delle poesie di Erminia Passannanti

 in antologie poetiche collettive a soggetto

 

I 5 Poeti del Premio Laura Nobile (Scheiwiller, Milano 1995).

Clandestini (Como, 2003).

East of Auden (Poetry Direct, Oxford, 2003).

La poesia salverà il mondo (Nuovi Mondi Editore, 2003).

Il segreto delle fragole (Lietocolle, Como, 2004).

Stagioni (a cura di A.M. Farabbi, Lietocolle, Como, 2007).

La luce ed il buio (Lietocolle, Como, 2008).

Odradek (a cura di Francesco Muzzioli, Odradek edizioni, Roma, 2007).

Nel cristallo un vino astrale (WhiPart 2008).

Fire (J. Hilton, n. 29/30 Special International Issue, Oxford 2008).

Poesia a Comizio (Empiria Edizioni, Roma, 2008).

Mundus (Napoli, 2009).

Poesia del dissenso (vol. I, Troubador, 2007).

Il segreto delle fragole (a cura di Elio Pecora e Luca Baldoni: L'Italia e la fatica di amarla, Lietocolle, 2009).

"Keffiyeh, intelligenze per la pace", a cura di Gian Mario Lucini, Secop Edizioni (2014);

Temperamento Sanguineti, Antologia di scritti, Lorandi e Montaldo (a cura di), Joker, 2014;

Cuore di preda. Poesie contro la violenza alle donne", a cura di Loredana Magazzeni, 2012.

Labyrinthi (volume 2), Raccolta di autori di poesia italiana contemporanea -Editore Limina menti (2013)

"Keffiyeh, intelligenze per la pace", CFR Edizioni, 2014.

Umafeminità, Antologia di poesie, Nadia Cavalera (a cura di), Joker, 2015.

Fil Rouge, Antologia di poesia scritta da donne, A. Barina e L. Magazzeni (cura di), CFR Edizioni, 2016.

Matrilineare. Madri e figlie nella poesia italiana dagli anni Sessanta a oggi, L. Magazzeni et Al. (a cura di), La vita Felice Edizioni, 2018.

 

 



[1] Romano Luperini, “Prefazione” a Macchina, p. 8.

[2] Guido Guglielmi, nota introduttiva ad Exstasis: “Nella poesia di Erminia Passannanti una logica fantastica provvede a legare gli spezzoni narrativi. La mimesi è sottoposta a un’intenzione antimimetica. Ne deriva un’instabilità di oggetti. Tutto è presentato in stato di metamorfosi.”

[3] Pietro Cataldi, dalla “Presentazione” di Mistici, Salerno: Ripostes, 2003, p.7. “L’ordine della metafora sovrappone oggetti diversi e inconciliabili, mette dentro il recinto delle proporzioni e delle categorie presenze improprie e sconcertanti. È un effetto a volte perfino surreale, mediato da una predilezione per il mondo onirico”.

[4] Luca Lenzini, “L’ironia delle rose”, introduzione a Mistici, p.11. “[La] ‘logica fantastica’ [...] si manifesta attraverso la costante contaminazione di elementi eterogenei e non di rado contraddittori [...]; la presenza di linguaggio di origine religiosa unito a schegge di registro tecnico-protocollare o d’inglese; fino al complessivo configurarsi di una lingua ibrida e meticcia, senza più una patria.”

[5] Luperini, cit., p.8.

[6] Laura Incalcaterra McLoughlin, “Erminia Passannanti nella lirica del dis-senso”, in Poesia del dissenso, pp.79-81.

[7] Lenzini, cit., p.13.

[8] Erminia Passannanti, “Eresia”, Mistici, p.28.

[9] “Di mia madre”, Exstasis, p.34.

[10] Da una conversazione con l’autrice, 30 gennaio 2006.

[11] Antonella Sartor, Analisi testuale: “Di mia madre”, pubblicato nella rivista online Cultural World.

[12] “Dialogo tra due sedie”, Macchina, p.26.

[13] Zorat nota come in “Latte d’asina”, l’immagine del cerchio unito alla consapevolezza del peso di colpe richiamino “Event” e “A Life” della Plath.

Cfr. Zorat, “Macchina di Erminia Passannanti”, in Fucine Mute On-line, 27 febbraio 2006.

[14] Da una conversazione privata con l’autrice, settembre 2005.

[15] La prima edizione de La Realtà raccoglieva dodici traduzioni tratte dal volume edito da Passannanti nel 1993, Gli uomini sono una beffa degli angeli e dalle Liriche alla svolta di un millennio. Tra queste traduzioni, appare “Limite” di Sylvia Plath, in cui emerge chiaro l’Io nevrotico e narcisistico della Plath dinanzi alla sconfitta che, tramite il suicidio, si traduce in autocelebrazione e rivolta: “La donna è perfezionata./ Il suo corpo/ morto veste il sorriso del compimento. (“Limite”, La realtà, pp. 90-91. La poesia originale, “Edge”, è inclusa in Ariel.)

[16] Sylvia Plath, Collected poems, London, Faber &Faber, 1981, p. 192, n. 163

[17] “Il sentiero delle more”, Macchina, p.22.

[18] Ivi, p.21.

[19] “Latte d’asina”, Macchina, p.18.

[20] “Volpe raminga”, La realtà, p.72.

[21] “Quando un grillo un topo un rospo”, Macchina, p.59.

[22] “Lumaca”, Macchina, p.36.

[23] Georges Bataille, Teoria della religione, trad. it. di Renzo Piccoli, Milano: SE, 2002, p.21.

[24] “Fossato”, La realtà, p.46.

[25] “Più non ero io”, La realtà, p.76.

[26] “Parigi-Baghdad”, Macchina, p.68.

[27] Ibidem.

[28] “La zona empirica”, Macchina, p.30.

[29] “Follia”, Il Roveto, p.25. Mio corsivo.

[30] “Prima del 2000”, Exstasis, p.23.

[31] “In Memoria”, Macchina, p.72.

[32] “Ricordo”, Mistici, p.46.

[33] “La zona empirica”, Macchina, p.30.

[34] Ibidem.

[35] Ibidem.

[36] “Calcolo”, da “In Jugoslavia con i piedi a terra”, Macchina, p.104.

[37] “L’inconscio del poeta”, Exstasis, p.3.

[38] “L’eresia è sublime/ netta insita nell’immagine”, da “Eresia”, Mistici, p.28.

[39] “Questi spermatozoi di chi potevano essere”, nel poemetto La Chiesa di Dio, di Gesù, della Madonna, degli Angeli degli Ultimi Dubbi, Mistici, p.56.

[40] “La Chiesa di Dio, di Gesù, della Madonna, degli Angeli degli Ultimi Dubbi”, cit., p.60.

[41] Ivi, “Atto di fede”, p. 62.

[42] Ibidem.

[43] “Teoantropologia”, Il Roveto, p.32.

[44] Ivi, p. 56.

[45] “Correcta” Il Roveto, pp.70-71.

[46] Da uno scambio epistolare con l’autrice a proposito di Mistici e Il Roveto, Gennaio 2006.

[47] “Il roseto”, Exstasis, p.20.


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