Introduzioni alle raccolte


FRANCO FORTINI. Giudizio della Giuria del Premio Rassegna di Poesia “Laura Nobile”, Siena, 1993........... 1
(SANGUINETI, CATALDI, LUPERINI, ET AL.) Giuria del Premio Rassegna di Poesia "Laura Nobile", Siena 1995 1
ROMANO LUPERINI. INTRODUZIONE A Macchina, 2000............................................................ 1
LUCA LENZINI. Introduzione alla raccolta IL ROVETO /2004.................................................... 3
GUIDO MAZZONI, Siena, 14 ottobre 2005......................................................................... 4
FRANCESCO MUZZIOLI, "Per una poesia del corpo" - Introduzione a Il Torsolo del Ventre ed Altre Fandonie, 2006        4
GUIDO GUGLIELMI. Introduzione a In Iugoslavia con i piedi a terra, Poemetto.'................................. 6
PIERO CATALDI - INTRODUZIONE A MISTICI (2003)............................................................... 7
LAURA INCALCATERRA MCLOUGHLIN. (Dall’Introduzione a Machine, traduzione di Macchina in inglese, di Brian Cole)   8
GIAN MARIO LUCINI. RECENSIONE A MISTICI (2003)............................................................. 8
CRITICI INGLESI.................................................................................................. 10
PETER DALE in "Agenda", Literary Magazine, London, 2000................................................... 10
D. BARBOUR....................................................................................................... 10
R. BULKLEY...................................................................................................... 10

FRANCO FORTINI. Giudizio della Giuria del Premio Rassegna di Poesia “Laura Nobile”, Siena, 1993.


Impeto, ricchezza di immagini, una sorta di eccitata affermazione di sé, con una singolare capacità di scatto. La ricerca di quello che la P. chiama "il mio correlativo esatto" vira verso l'assurdo e il surreale. C'e' una tesa muscolatura ritmica aggressiva; si ha però l'impressione di una esplosione, di un moto centrifugo che si vorrebbe più controllato. Quando questo avviene si hanno risultati molto alti, come le due poesie per la figlia. La Passannanti ha autentica natura poetica.


(SANGUINETI, CATALDI, LUPERINI, ET AL.) Giuria del Premio Rassegna di Poesia "Laura Nobile", Siena 1995 

 

Questa poesia ha pochi rapporti con la tradizione lirica italiana e si rifà piuttosto alla tradizione inglese da Dylan Thomas a Heaney, con qualche riferimento anche al Surrealismo francese. Da questa tradizione deriva la capacità di procedere contemporanemente per forza d'immagini e per forza d'idee. I componimenti si snodano con indugi e improvvise precipitazioni, passando dall'astrattezza al realismo, dalla cronaca alla concettosità, dalle immagini all'inconscio alle considerazioni morali. Bruschi accostamenti surreali interrompono e violano la ricorrente volontà d'ordine, con risultati inaspettati. Il significato riguarda una realtà sempre mutilata; è comunque un'ipotesi o un azzardo. Lo stile asimmetrico e avvolgente determina esiti imprevisti anche entro campi semantici e retorici tradizionali.

 

ROMANO LUPERINI. INTRODUZIONE A Macchina, 2000.


1. Il titolo

Il titolo del libro è preso dal primo componimento della serie «In Jugoslavia con i piedi per terra». La macchina di cui qui si parla dapprima sembra collocata in una corsia d’ospedale (quasi macchina di rianimazione): condiziona l’orizzonte percettivo, è un filtro che perde pezzi, non funziona più, determinando nel soggetto afasia, umiliazione, senso di annientamento, incapacità non solo di parlare, ma di vedere; poi diventa la macchina da cucire e il termine di un confronto (svantaggioso per l’io) fra madre e figlia; infine macchina da scrivere. In ogni caso è una sorta di protesi dell’io, di strumento di mediazione, di percezione e anche di comunicazione; ma si tratta comunque di una protesi inerte, inefficace. Il risultato è una sensazione di stordimento, di oppressione, di mancanza di intimità e di identità in un mondo di frastuono e di incubo (si veda la strofa finale di Macchina).

2. La dedica

Il libro è dedicato alla madre. La quale è insieme specchio di una dissociazione e di una impotenza e luogo dell’origine e dell’identità perdute. La madre è stata pure lei colpita da immobilità, impotenza, afasia, dissociazione e in questo è un “doppio” del soggetto poetico («dura madre/ priva di nucleo»); e tuttavia è anche il primo anello di una catena, di un legame vitale che si è smarrito. L’episodio della sottana trasmessa alla figlia e da lei perduta in qualche albergo assume un valore emblematico: quello di un lascito tradito (cfr. Cedendo). La ricerca ossessiva di una storia familiare, di un Principio, che coinvolge gli «avi», le figure genitoriali, la sorella, è la conseguenza di un sentirsi «orfana», abbandonata sulla scena di un mondo ostile; deriva da un bisogno di consistenza, da un’alienazione da se medesima e dunque dal senso di una perdita del sé (vd. per esempio: «voglio essere membro di Mia sorella/ non membro dissestato di me stessa»).

3. L’esergo

In limine, in esergo, alcuni versicoli pongono il tema del libro: la frantumazione dell’io («frantumata bimba») non è che il riflesso di una frantumazione della realtà, di un suo collassarsi. La figlia (il soggetto si vive prevalentemente come figlia, più raramente come madre, reiterando la ricerca dell’identità in quella delle figure genitoriali) da piccola ha vissuto un trauma che si ripete, producendo una condizione di marasma, dallo sdoppiamento (cfr. Mia sorella) alla perdita di contatto con la realtà e con gli altri, sino all’autodissoluzione («cerco ogni notte/ il mio correlativo esatto»). La condizione di disorientamento è fronteggiata dalla memoria. Tema, questo, già shakespeariano: «Memory, the warder of the brain» (Shakespeare, Macbeth). L’identità in crisi ricerca una continuità dell’io nel ricordo, sola garanzia di durata e consistenza, di presenza del soggetto a se stesso. Per questo molte di queste poesie sono dei ricordi (d’infanzia soprattutto). In Lumaca, in Soffitta e in numerosi altri testi, perdita di memoria e perdita di sé coincidono, producendo una smemoratezza che talora può persino essere beata (perché può coincidere con un fluttuare irresponsabile, con una felicità «animale»), ma comunque ha sempre qualcosa di vergognoso («Cado/ nel fango, il fango/ dell’oblio»). A volte nel ricordo si annida un’immagine (di nuovo, dell’infanzia) che spiega tutto il non-senso dell’esistenza, come accade in una delle poesie più belle, Al frantoio.

4. La prima poesia, il «buio» e il «fossato»

Nel primo testo del libro la condizione del soggetto è già chiara. Il tema è quello dello sguardo nel buio, di chi guarda per capire e non intende. D’altronde lo sguardo stesso è sbilenco o «storto»: non illumina la realtà, ma ne resta come allucinato. Per questo lo sguardo è esso stesso, in molte poesie, tematizzato: è problematico, posto in questione. Il mondo è visto in visione, attraverso stati di frantumazione onirica. Lo strumento poetico non è rivelazione orfica di nulla. In un’altra poesia, Fossato, l’illusione di una espressione poetica naturale e assoluta crolla di fronte al «fossato» che divide il poter essere dall’essere, il sogno dalla realtà. La condizione grottesca del soggetto (si veda la conclusione) non concede alcuna autenticità di canto. Il testo che comincia in prima persona si chiude in terza. L’io si sdoppia umoristicamente; e l’atto di vedersi nel grottesco quotidiano funziona da duro contravveleno scacciando ogni aspirazione romantico-simbolistica.

5. Surrealismo, onirismo: la scena dell’ assurdo

La condizione di allucinazione e marasma si riflette in quella onirica, fantastico-delirante, di molti testi: «io stava come presa da un delirio di voci». Donde gli esiti apertamente surreali del libro. Ciò non significa però che la realtà sia assente. Anzi, duri, concretissimi lacerti di realtà oggettiva fluttuano ovunque, ma come assorbiti in una dimensione allucinata (magari, talora, anche allegramente allucinata), frastornata e frastornante. I dati reali si caricano così di assurdità. La realtà dell’assurdo e l’assurdo della realtà sono una cosa sola. Immagini violente di forza e di crudeltà si intrecciano ad altre di pietà amorosa su uno sfondo di campagne meridionali, con i loro animali (gli asini, il mulo, il cane), le loro viottole, i carri, ma anche, più raramente, di case urbane, di aeroporti, di metropoli. Sono immagini in cui la violenza espressionistica può persino conciliarsi con una nitidezza quasi classica (come nella bellissima conclusione di L’evento ) e l’onirismo assumere una perturbante bellezza come nell’explicit di Aurora: «Raccolgo/ ai piedi di quell’erta/ un sacco strepitante, mi slaccio/ il corsetto, gli offro il mio capezzolo».

Lo spazio di queste poesie è fra Sylvia Plath e Amelia Rosselli, ma con in più una concretezza (talora persino luminosa) tutta mediterranea. Averla unita al senso di vertigine e di spaesamento: sta qui l’originalità della scommessa poetica di Erminia Passannanti (della sua doppia natura, direi, di meridionale oxfordiana). Quella luminosità mediterranea s’incontra e si scontra con una foschia nordica, e ne risulta perciò come straniata e persa. E tuttavia resta lì, come una possibilità frantumata, come un’eco di un mondo possibile e ormai perduto.

©Romano Luperini, 2000.

 

LUCA LENZINI. Introduzione alla raccolta IL ROVETO /2004

Parlando della poesia di Erminia Passannanti, la critica ha impiegato termini e categorie di chiara matrice novecentesca: surrealismo, onirismo, frantumazione dell’io. A ragion veduta, poiché alcuni moventi profondi della scrittura dell’autrice, ben presenti anche nel Roveto, sembrano appartenere ad una zona di confine tra realtà e immaginazione, inconscio e ragione, in cui l’io si fa teatro di apparizioni e sottrazioni governate da una “logica fantastica” (così Guido Guglielmi), imprevedibile e impertinente. Una tal logica opera tanto nei nessi costruttivi, quanto in quelli linguistici, per via di spostamenti e febbrili alterazioni: in questa raccolta, in particolare, essa si manifesta attraverso la costante contaminazione di elementi eterogenei e non di rado contraddittori, vedi l’uso di lessico corrente e colloquiale -“non per niente”, “arrivederci e ciao” (attribuito a Cristo) - e, negli stessi testi, di arcaismi che sfiorano il kitsch; la presenza di linguaggio di matrice religiosa unito a schegge di registro tecnico-protocollare o d’inglese; fino al complessivo configurarsi di una lingua ibrida e meticcia, senza più una vera patria. Ecco allora le “distese nivee” e (nel medesimo verso) la “soglia fosca”; il latino liturgico ed il “comma 3 dell’articolo bis”; ecco gli “arcani gioiosi” ed i “misteri angosciosi”, “bolo” e “postribolo”, “socialmente determinato” e “redenzione”.
Alto e basso, spirituale e sensuale, fisico e mentale, concreto ed astratto entrano dunque a parità di diritti nella trama dei versi, ma senza forzature e come per inseguire una visione “oltre il velo e la nube dell’impermanenza”. Il bersaglio è ambizioso; tanto che per un paradosso non infrequente la tensione ad una ricomposizione o sublimazione dei conflitti soggettivi nello specchio multiplo del testo (il versante esistenziale che legittima il richiamo alla Plath di alcuni lettori, ma certo altri nomi si potrebbero fare) si rovescia in una forma di ironia, come per una dialettica destruens che guadagni per via di negazione (o regressione) quel segno astante, quella promessa di pienezza che si sa disattesa e inattingibile: “nella distanza la speranza / nel contorno il giorno / nell’immediata presenza l’assenza / per lor capacità di cogliere in essa / idee inadeguate all’ispezione attenta” (Teoria della pintura). E con speculare contrappasso, il rigoglioso teatro barocco di una mimesi tendenzialmente senza limiti, immaginosamente estroversa e spavalda, può talora virare su tonalità più sobrie ed assorte, l’io mutarsi in quello dell’“unica spettatrice tra tante sedie vuote” (Il sentiero delle more).
Nella poesia Roveto III, che mi sembra uno dei cardini del libro, il verbo cercare compare otto volte. Tutta la struttura del testo, forse la stessa metrica offrono al lettore la traccia, il riflesso di una ricerca, di una quest perseguita sulle orme dei grandi mistici; ma è significativo che il “poemetto” – così recita il frontespizio del libro, nonostante esso si presenti come una sequenza di composizioni tra loro distinte ed autonome - sia tale non in virtù di un disegno narrativo, bensì di una istanza che, complice la dialettica e la teatralità di cui sopra, si starebbe per dire di ordine “pedagogico” – pedagogia il cui oggetto però si rifiuta alla presa, si nega, ricade fuori da ogni regola quanto più di regole, preghiere e divozioni si popolano i testi.
Affiora qui a tratti, sia nella ricerca di un ordine strutturante perseguito senza racconto, sia (e soprattutto) a livello linguistico, una genealogia nobile ed impegnativa, in cui assume particolare rilievo un testo di Franco Fortini che Passannanti ha tradotto e commentato, La poesia delle rose, del 1962. Scosceso crinale: nel testo fortiniano infatti il cozzo di ragione e non-ragione, ordine e disordine, mobilita un universo simbolico-culturale di spessore inusitato, una dialettica figurale sapientemente orchestrata e ambivalente, in cui interno ed esterno si sfidano e insieme si scambiano le parti; mentre il plurilinguismo e l’ironia desublimante (Luperini ha parlato per la Passannanti di sdoppiamento umoristico) che percorrono il Roveto mettono in scena una via crucis di altro genere, anch’essa discontinua e tutta consegnata a intermittenze psichiche ma meno controversa e fosca, e segnata piuttosto dalle ferite di Eros. Ma poi, quale sarebbe l’insegnamento da guadagnare in conclusione a un tale itinerario di dérèglement e di negazioni? A quale sapere allude la finta tavola di pie disposizioni allestita nel testo?
Sembra anticipare una risposta, dalla soglia del libro, una dichiarazione o lacerto in prosa a carattere gnomico. Vi si legge, in chiusa: “La guerra è continua, imponderabile. Il trasformarsi del consenso in ignoranza è la condizione della sopravvivenza. Questa è la mia percezione dei rapporti di potere: di abuso e legittimità. Tutto è allegorico.” Ora, è raro imbattersi in affermazioni così nette, eppure così sensate, nell’introverso, elegiaco universo della lirica; ma chi volesse trovare nei versi riferimenti puntuali, specifici al presente storico (e non, di questo, obliqui frammenti o cascami lessicali) rimarrebbe deluso, e potrebbe sospettare che l’affermazione conclusiva, “Tutto è allegorico”, non sia che un generico passepartout per contrabbandare moti e moventi di natura squisitamente soggettiva. Nondimeno, non di contrabbando si tratta; perché nel Roveto esposizione del soggetto e tensione allegorica coabitano in una strana, anzi straniante simbiosi, allo stesso modo in cui l’elemento intellettuale dell’ironia rafforza, non annulla l’ardore mistico dell’imagery. Ed importante è anche l’accenno alla guerra, per cogliere l’elemento di violenza che circola nei testi – una violenza diffusa e ritualizzata, legata a immagini di sacrificio. Del resto ironia e allegoria non hanno almeno questo in comune, che alludono ad altro? E infine tutto il tessuto verbale di aperta derivazione religiosa del Roveto, che prolifera in versi e prose, non sembra tradurre con intenzionale eccesso le infinite, imponderabili forme dell’abuso, sconsacrando e sfidando la tradizione per svelare il dominio?
Tutto è allegorico, certo. Almeno per chi non si arrende al così è eternamente irradiato dai monitor, quotidianamente ripetuto dalle voci stridule degli opinion-makers; per lo sguardo che non si appaga dell’apparenza, e tenta tutte le strade per cogliere altro dalla violenza tautologica, normativa della “doxa”. Ce n’è un’eco nelle meticolose, anzi pedanti istruzioni corporali per l’educazione dello spirito che con burocratico sadismo il Roveto infligge al lettore; ed è la zona più nuova esplorata dall’autrice rispetto alle sue prove precedenti, quasi un copione per l’espiazione di un personaggio tra Beckett e Almodovar. Ma a quell’ordine replica, con inversa oltranza, il disordine dell’io con i suoi conflitti e le sue abbaglianti visioni: il sentiero delle more, i monaci che scendono solitari tra i monti, un volto bellissimo. Non si prendano troppo alla leggera, perciò, le prescrizioni dell’Esercitazione all’ascolto. Un altro ordine c’è, indecifrabile, inaudito, il cui segno è portato dalla poesia come la croce o la spina di un’invisibile tatuaggio.

GUIDO MAZZONI, Siena, 14 ottobre 2005

Sto leggendo le tue poesie. Mi piacciono i testi dove il tuo lirismo affabulatorio, plurilinguistico e un po’ schizoide si dispiega liberamente con effetti davvero sorprendenti; mi piacciono meno i testi più freddi, allegorici e cerebrali. Ma come ti dicevo, il mio gusto è classicistico e conservatore, e dunque non ti segue nelle costruzioni più allegoriche che il Lenzini, da fortiniano ortodosso, invece apprezza. In ogni caso, ti ho letto volentieri: le tue poesie mi paiono necessarie.

FRANCESCO MUZZIOLI, "Per una poesia del corpo" - Introduzione a Il Torsolo del Ventre ed Altre Fandonie, 2006

Contro la tendenza dominante della poesia dell’“anima”, che continua ad ammorbare i nostri climi letterari con i suoi irrespirabili incensi, e a monopolizzare le residue presenze della poesia nella cultura diffusa e nell’immaginario collettivo (si pensi alle caricature cinematografiche di banalissimi personaggi-poeti, come pure ai rari ma purtroppo significativi, riconoscimenti ufficiali), e si conserva saldamente radicata nel senso comune anche giovanile, tanto da apparire a volte – in una di quelle “false alternative” che ci circondano – quasi che fosse lei, addirittura, l’antitesi al capitalismo (come se il guaio del capitalismo fosse di aver perso l’anima e non di essersi “smaterializzato”, proprio, nei cieli del “puro spirito”), mentre si riduce a fungere da pallido sintomo sublimatorio; contro questa tendenza, dunque, credo che si debba prendere radicalmente posizione.
Il comico involontario a cui vanno incontro i poeti dell’“anima”, evidentemente, non è sufficiente. «Pensate a X, o a Z! Come sarà buffo!», diceva già ai suoi tempi Baudelaire di quei poeti che raccogliessero l’aureola e se la rimettessero in capo, dopo che la modernità l’aveva fatta rotolare inopinatamente nel fango. Ma niente da fare: il “restauro dell’aureola”, con il recupero connesso dell’atmosfera sacrale dell’aura (teste Benjamin) non ha ceduto di un centimetro nemmeno con l’incalzare della modernità più spinta e potremmo comodamente sostituire gli X e gli Z di Baudelaire con nomi a noi contemporanei, ora ingenuamente sprovveduti, ora invece sottilmente muniti con misticismi di nuovo conio (magari heideggeriano o derridiano, perfino). Che fare? Contro la poesia come lingua dell’anima, ben venga allora l’esercizio del testo come poesia del corpo! Ciò significa riflettere sul corpo della parola.
Nelle avanguardie del Novecento, il corpo della parola veniva identificato nella materia del significante. Si trattava, per i futuristi, per i dadaisti e poi per i verbovisivi e i “telquelliani”, di assaporare il suono, di gustarne l’impasto, la grana, fino a separarne le singole componenti oppure fino a creare una neolingua, passandosene del legame “ragionevole” con il senso. Questa fungibilità della parola nel suo lato “vocale” rappresenta implicitamente l’utopia di una libertà verbale “a pronta presa”, che è possibile acquisire subito, qui-e-ora, semplicemente sciogliendo il segno dalla sua convenzione significativa. Ma il mondo post-novecentesco, ormai, ha ben presente la difficoltà di ogni libertà immediatamente disponibile (la libertà “a pronta presa” è, nel capitalismo “drogato” in cui viviamo, quella del liberismo, del potere che si fa le leggi da solo, ecc.: l’anarchia berlusconica); la libertà è invece tutta da conquistare, la libertà è nel conquistarla. Allo stesso modo, la corporeità non è data (la corporeità data è il corpo-oggetto della profilassi medica e delle cure estetiche, oppure dell’eros prefabbricato dell’immaginario di massa), ma va strappata alla “sussunzione reale” della merce. Nel caso del corpo della parola, ciò significa che dobbiamo tornare a cercarlo nei nodi e nelle intercapedini dei codici, dei generi, degli usi e dei contesti, in una parola dei sensi del linguaggio.
Queste riflessioni mi sono state suggerite dalla lettura del Il torsolo del ventre di Erminia Passannanti, la raccolta poetica che qui si presenta. In questo ultimo testo, ma un po’ in tutta la linea di ricerca di questa autrice, la centralità del corpo si presenta e si articola su diversi livelli che proverò a distinguere brevemente. In primo luogo, la corporeità si manifesta nella propensione al prosastico. Il prosastico vuol dire corpo tematizzato e incremento percentuale della terminologia relativa al corporale. Si può partire dal «ventre» che dà il titolo alla raccolta e via via inventariare; e si vedrà che la tendenza è massiccia. E però qui prosastico vuol dire di più: vuol dire anche, precisamente, uso della prosa. È vero che la prosa è un semplice strumento, è un mezzo e non un genere, e che essa è perfettamente abilitata ad adempiere pure, al buon bisogno, ai compiti della lirica.
Tuttavia, ne Il Torsolo del Ventre della Passannanti, la prosa sembra affermarsi a discapito, non solo della forma più tradizionale del verso, ma anche a totale detrimento della liricità e della sua spinta verso l’alto e il sublime. Curiosamente – e a differenza da altri precedenti usi in poesia, come, ad esempio, nel cosiddetto poema in prosa – l’impiego della prosa non è accompagnato dalla liricizzazione e dalla ricerca di clausole metriche, ma fa entrare nel testo il tono di un linguaggio pseudo-argomentante, di tipo trattato, che mette in scena uno sragionare sproloquiante, con forte tendenza alla parodia. Il ritmo, qui, non è la musicalità facile delle sillabe; è lo scricchiolio di una macchina che gira a vuoto, come già annunciava l’opera prima, del 2000, Macchina.
In secondo luogo, vorrei sottolineare l’impiego della lingua “storica”. Questo impiego è esattamente connesso a quel rimuginare prosastico della “trattazione maltrattante” e della tendenza alla parodia. Ecco allora che il linguaggio chiamato in essere è una parola tinta di passato, che riemerge dalla storia con la connotazione letteraria di un prestigio perduto. Non c’è, si badi, nessuna pietas conservativa, qui, né alcun valore antiquario. Il linguaggio della tradizione è semplicemente un relitto tra gli altri, un fantasma che viene agitato polemicamente di fronte all’impoverimento della “lingua di plastica” delle comunicazioni di massa. A cospetto del mito della trasmissione immediata di significati, che oggi presiede alle attività dell’industria culturale, si pone e si ammassa, qui, in una sorta di freudiano “ritorno del superato”, una lingua letteraria che rischia ormai di apparire “ostrogota”, incomprensibile ai più.
Da questo punto di vista, lo strato “alto” della lingua aulica si congiunge allo strato “basso” del dialetto, in quanto entrambi estremi ormai degradati, espunti e respinti ai margini dalla medietà dei media. In un tono “popolaresco” tutto reinventato (d’altra parte, oggi, il “popolare” ha cambiato di segno ed è, precisamente, la cultura dominante e la lingua normalizzata e globalizzata), in un impasto grottesco e straniato, la Passannanti mette sulla sua scena poetica tutta una serie di personaggi-maschere, che diventano protagonisti di un insensato brulicare di azioni-e-reazioni, di un “teatrino” in cui è possibile riconoscere la mimesi distorta della nostra politica-spettacolo (e talvolta, qualche personaggio lo si riconosce proprio, senza ombra di dubbio, dietro le teste di legno). Gente come il «Deus Ex Machina», il «Merda», oppure l’«Hommo de Sale» o lo «Sciaguratiello», animano contese e offese sul palcoscenico del «roboante pianetucolo». Non era sufficiente – obietterà qualcuno – “dire le cose” e puntare direttamente il dito sulle malefatte dei mariuoli al potere o sulle nefandezze dalla guerra preventiva? Perché questo passaggio attraverso l’attrezzatura della finzione? Ma certamente – rispondo – perché gli strumenti della testimonianza o della denuncia sono facili a svilirsi in merce da informazione, a farsi consumo patetico del vittimismo, e allora l’impegno civile deve approntarsi una forma deformante per stigmatizzare l’atteggiamento, il gioco delle parti, la modalità burattinesca dei fantocci che infestano il mondo.
Infine, in terzo luogo, il corpo non può emergere, nel linguaggio della poesia, altro che come enigma e come conflitto. Il corpo sfugge ai saperi costituiti (è la «cosa sconosciuta»); si pone al punto di rottura dell’ordine (è scritto che «Il Torsolo del Ventre s’identifica con il Tafferuglio Massimo»); si situa contraddittoriamente al «centro di un Travaglio» (triangolabile secondo le coordinate della «Sopravvivenza», della «Resistenza» e della «Dissidenza»). Gli è che, da un lato, il corpo è pur sempre in intreccio con la psiche (è Psychosoma), innervazione di pulsioni e di investimenti; dall’altro lato, è corpo-mondo, ingrediente di cucina nel calderone globale. La sorte del corpo nella globalizzazione trionfante (o capitalismo “drogato” che dir si voglia) dà da pensare. Il corpo è esaltato, ma solo dentro i parametri dell’immagine patinata. Altrimenti è in esubero. Che il corpo sia raggiungibile, oggi, solo cercando tra i margini e i resti (come «Rimasuglio di Vita») balza agli occhi dalle pagine poetiche della Passannanti. In esse il corpo, per sfuggire alla fantasmagoria che lo riveste, si manifesta strappando la seconda pelle del linguaggio; cioè emerge come non-senso, sregolatezza, follia, in rivolta contro l’addomesticamento culturale che permea le false libertà vigenti.
Questi diversi livelli di discorso si riflettono bene nelle ambivalenze del titolo, che mi ha colpito fin dall’inizio: Il torsolo del ventre. Il «torsolo» rimanda a qualcosa di nucleare e basico, ma è nello stesso tempo un residuo, ciò che si butta via dopo avere mangiato il frutto. Il «ventre», a sua volta, è il segnale dell’ingordigia e la sua gonfiezza, è soprattutto un luogo centrale della comicità “classica” (e allora si connetterebbe al torsolo come “ventre bitorzoluto”); ma significa anche, ovviamente, la parte del corpo specificamente femminile, il luogo della produzione-riproduzione della vita.
La rivendicazione del femminile attraversa tutto il libro e, in alcuni punti, si enuncia esplicitamente (si vedano, ad esempio, Femmina, svolto in tono di preghiera; e l’«insperata specie femminile», in Da vecchia). Eppure, il lato comico-parodistico, con le sue intemperanze linguistiche e il suo mescolamento di stili e di voci (tutto il coté bachtiniano del libro), fa sì che ogni protesta sia sempre lì lì per rovesciarsi in finzione esibita, nell’avviso a non prendere troppo sul serio un testo che è «fandonia», «baggianata» e quant’altro, secondo i segnali di palese autoironia.
La “panza” si fa “panzana”, ovverosia riscrittura, scoronamento, abbassamento, critica della letterarietà stessa. Sicché, a differenza della vulgata, che vuole la scrittura al femminile minimalisticamente attesa a una corporeità che è quella del quotidiano, qui la faccenda si rovescia. La concretezza non sta nel vissuto, ma nel delirio. Mentre il vissuto si attiene ai fantasmi ricevuti e alla fine se ne accontenta senza forzarne l’assetto profondo, anzi rafforzando con la narrazione l’“io sono” più codificato, il delirio tenta di toccare il “torsolo” del corpo negato dall’ordine delle cose e dei discorsi. Insomma se dobbiamo, come dobbiamo, cercare il corpo, i testi poetici di questo libro ci insegnano a prendere la strada più lunga; anzi, a passare dalla parte opposta. Precisamente: la parte opposta al senso comune.

GUIDO GUGLIELMI. Introduzione a In Iugoslavia con i piedi a terra, Poemetto.'

Le poesie di Erminia Passannanti, dalla raccolta 'In Iugoslavia con i piedi a terra' (Macchina, 2000, Manni Editore) procedono narrativamente, ma senza comporre una storia. Così un verso casuale in apparenza - un riferimento al presente storico drammatico - può dare il titolo alla raccolta. Il linguaggio e' basso o basso-familiare, ma tutti i rapporti interni sono alterati. Una logica fantastica provvede a legare gli spezzoni narrativi. La mimesi e' sottoposta a un'intenzione antimimetica. Ne deriva un'instabilità di oggetti. Tutto e' presentato in stato di metamorfosi. Gli oggetti li riconosciamo subito, ma sono sistematicamente dislocati, spostati in luogo improprio. Si potrebbe dire che solo quando le cose sono fuori posto, noi le osserviamo. E infatti parliamo di spaesamento (o straniamento). 
   Ma qui non e' questione di spaesamento. Non si tratta qui di attingere una percezione delle cose che le sottragga all'azione delle convenzioni. E non si tratta neppure del piacere delle combinazioni perverse, del gusto anarchico di rompere la gabbia razionale che impone ordine al disordine. Altro - sembra - e' il senso delle trasgressioni linguistiche. E' soprattutto la violenza dell'operazione che si impone su ogni altro effetto. E questo fondo espressionistico porta al si là del piacere del testo. L'oggetto dislocato e' un oggetto malfermo e infermo. "Qualcosa si deteriora, come e' successo a me" - e' detto in una poesia. 
   Gli arbitri dell'immaginazione sono espressivi di una crisi radicale di identità, di una contraddizione patita fisicamente tra apparenza e inapparenza, proprio e improprio. La Passannanti non dice la faccia libera delle cose, dice la loro ostilità. Tenta un inventario di se stessa, e il calcolo non torna: "Non avevo il Principio - che è il numero./ Il numero che mi doleva nei ricordi". Ma mentre riprende processi oscuri, li ripete attivamente, ricava dalla sofferenza una possibilità di gioco: "Le fibre della vita sono tutte imponenti./ Ognuno desidera esprimere qualcosa./ Quanto a me, vorrei un pediluvio innocente." 
   E' questo un momento importante delle sue poesie. Lo humor surreale delle mescolanze e' il suo modo di trattare - e cioè di elaborare - il negativo. Esso assicura quel margine di autoironia e di trascendenza che permette di parlare di eventi altrimenti muti (come sarebbero gli eventi del sogno). E fa che il libro dia un libro di passione non soltanto, ma anche di conoscenza."

 PIERO CATALDI - INTRODUZIONE A MISTICI (2003)

Anche per la poesia vale la regola delle cinque W, cui si richiamano i giornalisti (What, Who, When, Where, Way). Vale naturalmente al rovescio. In poesia diviene interessante ciò che non si sa ancora. Anche per questo, la poesia irrita i lettori di giornali. Leggendo una poesia devi abituarti ad ammettere che ciò che non capisci è appunto ciò che ti viene detto. Quando poi la poesia abbia inclinazione narrativa e argomentativa, come quella qui raccolta, il conflitto tra la necessità di fondamenti comunicativi e la loro problematicità può divenire più duro. La scrittura di Erminia Passannanti mette in discussione radicalmente le cinque W: non sono ovvi, e a volte non sono perspicui, né l’oggetto né il soggetto né il quando né il dove né tanto meno il perché. Vediamo.
Di che cosa parlano queste poesie, e di che cosa parla ciascuna di esse? L’ordine della metafora sovrappone oggetti diversi e inconciliabili, mette dentro il recinto delle proporzioni e delle categorie presenze improprie e sconcertanti. E’ un effetto a volte perfino surreale, mediato da una predilezione per il  mondo onirico: e d’altra parte, si legge in Sette e trenta, «sotto le direttive di Morfeo/ mi comporto benissimo. Nessun dislivello». Nei sogni le cose stanno fuori posto, fuori del posto che la luce diurna avrebbe assegnato loro. Fuori posto diventano visibili, come ha ricordato Guido Guglielmi parlando di questa poetessa; e diventano capaci di sprigionare un significato nuovo, l’unico che interessi: «devo io/ giungere al confine inconsueto del vero/ allo sconfinamento del senso» (In prossimità di…, un testo illuminante al proposito).
            Chi parla? Il soggetto vive nell’incertezza, scisso tra vita diurna e vita dei sogni: «guardami spogliata dei miei beni terreni/ che condivido con gli altri/ il cammino lungo una strada bianca/ che si perde, si perde nei sogni» (La vita consacrata). Tra i «beni terreni» sta l’identità dell’io, la sua maschera sociale; e la scrittura in versi serve ad aprire prospettive nuove, a interrogare livelli della coscienza altrimenti non investigabili. Anche nel momento in cui abbracci la prosa riflessiva per ripercorrere la storia di Gesù, l’io si colloca parte all’interno di quell’esperienza, identificando la propria voce con quella di Maria o scendendo nella sua logica più fonda, parte all’esterno di essa, giudicandola e verificandone la credibilità e il significato.
            Il quando e il dove non sono retti da legame biunivoco con il testo; ne sono invece una diretta funzione, un attributo. Si legga questo notevole attacco: «scagliata fuori da una stanza screziata/ di marrone e ocra sorvolo le auto imbottigliate/ nel traffico reggendo a coppa tra le mani/ una ciotola di riso come a tuffarmi/ nell’azzurro tremulo d’un banco oceanico/ nel solo interesse dello spirito» (Profezia). Dove siamo? Nella stanza screziata di marrone e ocra? Nelle auto imbottigliate nel traffico? O nell’azzurro del mare? E qual è l’«interesse dello spirito»? La legge della scrittura poetica chiede di ammettere che si sia, contemporaneamente, in tutti e tre i luoghi sopra evocati; non in successione, ma in modo simultaneo. L’interesse dello spirito è appunto di tenere unito ciò che è unito dentro l’io ma non può esserlo fuori di esso. Il tempo e il luogo di questa poesia sono sprofondati dentro una dimensione profonda del soggetto (diciamo la dimensione dell’inconscio) nella quale esistono solamente il presente, tanto in senso spaziale quanto in senso temporale. Può così ben dirsi: «Non avevo il Principio – che è il Numero.// il numero che mi doleva nei ricordi» (Calcolo).
            Quanto al perché, lo sdoppiamento umoristico dell’io (di cui ha parlato Romano Luperini) altera la catena delle causalità, separando i dati oggettivi della realtà dalla visionarietà onirica e surreale: in luogo di spiegazioni, ecco il giustapporsi di piani diversi della realtà, ecco la frantumazione dell’esperienza. La sintassi dei nessi è attraversata dalla discontinuità. Ciò che pare proteso al perché è anche, subito, una più radicale domanda.
Infine, non sono le cinque W a interessare questa ricerca. Questa poesia afferma anzi che c’è altro da trovare: forse i modi in cui i contrari possano convivere senza il dolore della contraddizione; i modi in cui io e non io, una cosa e un’altra, qui e altrove, ora e ieri, una ragione e la sua opposta possano stare nello stesso luogo, accolti nel medesimo giro d’occhi, senza turbamento. Anche per questo nella stessa poesia trovano posto gli inconciliabili del lessico: «schifo» e «bellezza», «pisciare» e «germogli» (in Se proprio Dio e in L’altra faccia); e convivono i segni di una tensione (formale, strutturale, metrica) fra apertura e chiusura: in W la Revoluçion l’ultimo verso di strofe coincide per esempio con l’inizio di un nuovo tratto sintattico, così che mentre una voce annuncia l’intervallo l’altra lo neghi. Bisogna infatti imparare a vedere, insieme, ciò che c’è e ciò che non c’è, ciò che si vede e ciò che è invisibile, l’ovvio e l’assurdo. E’ questa, forse, la chiave del titolo Mistici: la possibilità di fondere ciò che deve restare separato, il sogno di unire i contrari, di vedere nel dato concreto e misurato dell’esperienza la dismisura di un’interezza. «Possono esserci angeli,/ in questa stanza, come diavoli» (Calcolo). La stessa lunga prosa conclusiva sui dogmi evangelici è una riflessione dolorosa sull’impossibilità di una cosa che dovrebbe essere vera.
Per essere una sfida di conoscenza e non un movimento regressivo e consolatorio, questo sogno ha dovuto fare i conti con l’esperienza della frantumazione come condizione di insensatezza, ha dovuto vedere la discontinuità senza redenzione, ha vissuto l’esperienza dell’epifania senza luce di universalità: dal punto di vista della poetica, e storicizzando, il sogno della tradizione simbolistica ha conosciuto la deprivazione imposta dall’assurdo, cioè dal moderno: dal rigore del sapere configurato quale assurdo. La scrittura di Erminia Passannanti è dunque uno dei casi non frequenti in cui valga la pretesa della ricomposizione del senso pure nella consapevolezza della sua impossibilità: di nuovo una pretesa (mistica in senso figurale) di compresenza dei contrari. Con le sue parole, cioè, la «speranza/ di coesione tra sabbia e cemento» (Casa di poesia).

 

LAURA INCALCATERRA MCLOUGHLIN. (Dall’Introduzione a Machine, traduzione di Macchina in inglese, di Brian Cole.

Il linguaggio dei sensi

Postfazione alla raccolta Machine (2008)  

 

Sembrerebbe poco ortodosso considerare uno scrittore come punto di partenza per un saggio su una poetessa che considero sottilmente femminista. Tuttavia, quando questo scrittore è Antonin Artaud (1896-1948), la prospettiva cambia siccome la scrittura, l'arte e la vita di Artaud sono un atto di ribellione contro la norma, l'ordine di una società patriarcale e contro la lingua ufficiale, usata per comunicare non valori umani, ma prescrizioni e sanzioni. Da questo punto di vista, quindi, sembra meno azzardato partire dai presupposti innovativi del linguaggio poetico di Artaud e del suo procedere verso il disordine creativo per un breve studio delle connessioni tra Artaud, Amelia Rosselli e Passannanti. Sarà interessante notare che i versi di Artaud, rivalutati negli anni Settanta da Zanzotto, hanno consegnato alle avanguardie degli anni a venire il suo progetto di contestare e distruggere l’istituzione letteraria. Il problema che tormentò Artaud fino agli anni Quaranta fu infatti la difficoltà di trasferire pensieri, sentimenti ed ideali in un linguaggio poetico in grado di comunicare queste sue esigenze senza cadere nel caos della totale irrazionalità. La difficoltà consisteva nel ricostruire una sorta di sintassi metafisica, un nuovo sistema linguistico solo apparentemente involontario. Così anche Rosselli:[1] “[...] Braccata/ da una lingua divenuta pubblica amministrazione/ tentavo ammonimenti di simplicità: chi v’era capace a rimare /frasi meno crudeli?”[2] I nessi stilistici tra Artaud, Rosselli e Passannanti riguardano appunto l’innovazione del linguaggio a carattere ereticale che emerge in quasi la maggior parte dei loro scritti.[3] Queste coincidenze sono rilevate intuitivamente perché non sembrano esserci fatti conclusivi per indicare se Rosselli si sia imbattuta nei versi di Artaud e sappiamo che Passannanti non aveva ancora letto Pour en finir avec le judgement de Dieu, l'ultimo dei lavori di Artaud, prima di scrivere "In Grazia di Dio". Sappiamo inoltre che Passannanti conobbe Rosselli ma non lesse il suo poemetto del 1990  Impromptu, che la Rosselli le diede in forma manoscritta e che rimase sepolto tra varie carte nella sua libreria.[4]

Ma qual è il linguaggio sperimentale per eccellenza? Come suggerisce Passannanti, è la “macchina”, specie quando rotta, e se afasica (“Macchina”). È interessante notare che l'enfasi sulla macchina come "desiderio" è presente nella teoria di Gilles Deleuze e Felix Guattari, in L'anti-Oedipe: "Le macchine tecniche funzionano solo se non sono fuori servizio. Le macchine desideranti al contrario si guastano continuamente mentre funzionano, e infatti funzionano solo quando non funzionano correttamente. L'arte spesso sfrutta questa proprietà creando vere e proprie fantasie di gruppo in cui la produzione desiderabile viene utilizzata per cortocircuitare la produzione sociale e per interferire con la funzione riproduttiva delle macchine tecniche introducendo un elemento di disfunzione." (mia la traduzione)

In “Macchina”, Passannanti parla di come madre e figlia condividano la conoscenza del mondo attraverso il linguaggio della poesia come macchina del desiderio. La creatività della figlia è al lavoro nel decodificare misteriose espressioni della genitrice, innescate da procedimenti afasici del linguaggio che la madre ospedalizzata percepisce come una macchina rotta. Dal punto di vista della figlia, la lingua della madre, ed il suo corpo, sono componenti di una macchina mistica che assorbe tutta la conoscenza attraverso uno speciale canale di trasmissione affettivo-culturale. La macchina materna, fatta di memoria e immaginazione, determina circuiti di intuizione, assimilazione e conoscenza, comprendente religione, ideologia e saggezza popolare. La madre malata, che lamenta la disfunzione di questa sua "macchina", può contare sul fatto che la figlia ne tragga spunto per una creatività che la celebra e la redime.  

La macchina di cui scrive Passannanti è quindi una meta-macchina (il linguaggio della creatività, desunto dalla madre-lingua), che fa sentire l’intensità del suo ruolo anche attraverso gli automatismi del linguaggio afasico.[5] La potenza espressiva di questa poesia elegiaca dal titolo “Di mia madre”, recita eloquentemente:[6]

 

“Di mia madre”

 

non chiedermi perché

l’insondabile occhio che mi guarda

equivalga al catino

in cui mi specchio

pettinandomi all’alba

quando rammendo

i discorsi inconcludenti

di mia madre

 

ho trascritto le sue labbra

e rievocato la voce

della significanza

come un occhio che scruta

o un dito puntato

d’ un dio d’un gendarme

 

sebbene me ne stia

tra un ruscelletto verde

e due pietre angeliche

ancorché fraintesa

pur godo del ricordo

di quelle tre quattro strofe

ch’ ebbi a ponderare

quale loro unica giudice

 

e dal catino traboccano

le acque della bellezza

putride

 

una voce baritonale

canta

ma senza strazio

spoglia di colpa storica

una nenia insaziata

 

un grido senza fede

e senza speranza

volendo molto amare

e grandemente

giustificare la propria esistenza

pagando non più

di tre centesimi al mese

 

ma, dov’è mia madre?

credevo d’averla lasciata seduta

quaggiù in giardino

quieta nella sua vestaglietta

da casa a fiori azzurra

in tardiva difesa delle tasche

con fiera risolutezza d’orfana

a frangere le coerenze altrui

ma senza disappunto

 

ah, eccola dove credevo fosse

 

malgrado il silenzio

della posa marmorea

vedi come alza verso di me lo sguardo celeste

del volto lacerato

 

sorride, stringe le labbra

come a baciare l’aria.[7]

 

La tenerezza per la madre smarrita e smarritasi è estrema. La madre è qui ormai non più presente in vita ma viva nel ricordo. Il contatto è assoluto anche nel rapporto tra Passannanti e sua madre. Ed è nella poesia di Passannanti “La Madonna” in cui si esprime il nesso madre e figlia in modo più lirico.

 

“La Madonna”

 

Mia mamma era la Madonna.

Nel suo sguardo distante e celeste

si perdevano i mondi,

 

s'addolciva l'infanzia.

Madre di Gesù, eppure anche la mamma

di questa scura, smagrita Maddalena

 

che le rubava autorizzata le sottane

dal quel cassetto che sapeva di rosa.

Piccola e tonda, candida,

 

spaventosa, la Madonna

raccolta in una nicchia

tra le fronde verde scuro, ad una curva,

 

era di pietra,

così sinuosa e liscia.

Di marmo era, e senza

alcun rimpianto.    

 

In Mistici, Passannanti inserisce innumerevoli testi in cui è sua madre la voce poetante, come nella poesia sibillina “Un tempo ero”:

 

“Un tempo ero

 

ero lumaca un tempo

arrampicata una coppa di vetro

fino all’orlo imperlato del mattino

emergendo in solitudine da una camera d’ echi

onda su onda tinta su tinta

tra tuoni cavernosi lampi argentei

 

conoscevo spirali di pensieri

nella nuda geometria dei miei tessuti

del ciglio apprendevo il tono muto

e mi nutrivo dei miei grani di vero.

 

Signori

non ne avevo, governante o tutore.

madre di nessuno

strascinavo il mio evo

oltre la logica avanzando

verso l’indaco perlaceo d’ una sfera. vivevo

 

adornata d’ invisibile splendore

e tutto il tempo

ero nel lento sgocciolio

di quel cristallo.

Tra le sue belle dita

 

Questa sua nuova vita

durò verosimilmente

qualche tempo,

protratta la speranza,

appurata la tenacia.

 

Petali caddero sul selciato.

Regioni di suoni si schiusero

in quell’alba smunta ed eterna.

 

Narrerò la mia vita. Addio!

(lasciò l’aula, sdegnata).

 

Come se ciò a cui appigliarsi

fosse solo la stilo di madreperla

situata al punto nodale

tra le sue belle dita,

veicolo dell’espressione poetica,

dell’Eros, il marchingegno.

 

Del resto, l’autrice stessa ha affermato: “Mia madre è il vero macchinario che produceva fenomeni poetici, ed ella è per me la poesia stessa.

Ma analizziamo adesso una poesia di Passannanti che ha stretti nessi con Rosselli e Artaud. Il testo di Artaud Pour en finir avec le jugement de Dieu è forse l'opera speculativa con una struttura che ricorda più da vicino le tematiche di Passannanti, specialmente ne Il Torsolo del Ventre ed Altre Fandonie e In Iugoslavia con i piedi a terra.

In Pour en finir avec le jugement de Dieu, Artaud descrive gli Stati Uniti come una fabbrica di bambini da guerra per orrendi rituali di morte. Nella scena finale, Dio non è altro che un organo tagliato dal corpo deformato dell'umanità durante un'autopsia.

Queste immagini possono essere paragonate ai versi di Rosselli delle “Variazioni belliche” (Variazioni 1960-1961): “Il bene cadeva supino disteso sul letto / bocconi fra delle sue quattro candele morte.”[8] O anche dei versi “Contiamo infiniti cadaveri. Siamo l’ultima specie umana. / Siamo il cadavere che flotta putrefatto su della sua passione”.[9]

Allo stesso modo, i “bambini di guerra” di Artaud si ritrovano nei versi di Passannanti, "In grazia di Dio" che critica l'educazione ideologicamente allineata con i dettami dei partiti di volta in volta al potere, impartita agli studenti nelle scuole dell’Istruzione di Stato:[10],

                            

Bande armate di bambini attendono tra le colonne di cartapesta

l’inizio dello spettacolo, sfogliano opuscoli illustrati,

sistemano ordigni sotto i coprivivande del buffet

col beneplacito del Comitato di Sicurezza.[11]

 

[…] Ci sono bambini

A cui cambiereste il tessuto esterno:

sono i novelli Savonarola.

Hanno abbandonato qualunque tolleranza.

 

Nelle poesie sperimentali di Passannanti, i segmenti lessicali dell'alta valenza fonica rivelano sia intuizioni tradotte in composizioni istantanee ma insieme sedimentate nell’Io-cultura, sia l’impiego di un livello espressionistico di manipolazione dell’istituzione letteraria e dei procedimenti retorici del linguaggio poetico. Rosselli similmente smonta le logiche della poesia lirica tradizionale, quando scrive:

 

                 Il mondo è un dente strappato

[...]

La speranza è un danno forse definitivo

le monete risuonano crude nel marmo

della mano[12]

 

Propongo un incontro col teschio,

una sfida al teschio

mantengo ferma e costante

chiusa nella fede impossibile

l’amor proprio

delle bestie[13]

 

Rosselli esegue sulla lingua della sua poesia quella stessa "violazione" che Artaud aveva già esemplificato in Pour en finir avec le jugement de Dieu, in cui il suo agguerrito rifiuto delle arti classiche e della loro futilità corrispondono al rifiuto di Rosselli delle norme linguistiche, che considera “un dente strappato”.

Come per Artaud e la Rosselli, anche nello sperimentalismo di Passannanti le parole sono legate all'esperienza dell'oggetto, alla fisicità. L’uso estremista del corpo, oltre che del linguaggio, è un altro punto di contatto con il “teatro della crudeltà” di Artaud. Una volta scartate le norme, gli "errori" rimangono una forma di invenzione linguistica; errori, più che un lapsus perché “[…] a mio avviso, il lapsus sarebbe dimenticanza mnemonica, mentre l'invenzione linguistica è di solito conscia”.[14] Gli errori, le afasie, ciò che Pasolini chiamava "lapsus", non sono solo esito di un lungo e intenso lavoro di scavo linguistico, ma anche (e forse più in particolare) una volontà eretica di superare i luoghi comuni. Passannanti similmente trascende le norme linguistiche e il linguaggio della poesia lirica per creare una metalingua. Nella sua poesia si osservano frequenti riferimenti a varie parti del corpo – “piedi”, “mani”, “ossa”, “occhi”, "budello", "cuore": in particolare, all’organo femminile della riproduttività, l'utero, culla di nascita e morte.

Il lirismo, ad ogni modo, non è escluso dalle strategie espressive delle poesie sperimentali di Passannanti, ma si iscrive perfettamente in questo nuovo linguaggio. Il corpo come fisicità, con la sua forza e le sue debolezze, consente al l’Io di lottare con il mondo, venendo in aiuto alla sfera delle percezioni intime e soggettive, permettendo il contatto con il contingente, l'esterno e il reale.

La scelta di una terminologia fisica forte, usata tanto da Rosselli quanto da Passannanti, testimonia la loro sfida creativa allo stato degenerante delle cose del mondo e rende conto del progetto di registrarne l'effettiva regressione / trasformazione. Tuttavia, ciò non è sempre possibile e viene implicata una dicotomia tra vita e sopravvivenza, idealismo e necessità di sopportare il deterioramento del mondo così come è percepito attraverso il linguaggio del corpo. Citando da Passannanti:

                              [...]

una premessa debole

nel lento svelarsi di routine

un debole sangue in me

che non aveva consistenza

che non aveva niente

eccetto la pazzia[15]

 

Nell'ideazione di Passannanti, tuttavia, la dicotomia, piuttosto che essere vissuta sulla propria pelle, viene analizzata, quasi osservata, attraverso il corpo poetico che, nelle sue poesie, è sempre il corpo della madre. Inserisce monologhi di una voce interiore che si materializza nel frequente passaggio dalla prima alla terza persona e quindi introduce la presenza di una realtà irrazionale diversa dal sé, che viene quindi razionalizzata nell'organizzazione formale del corpus poetico. In questo modo, il linguaggio poetico della Passannanti-figlia diventa genitrice e rigeneratrice della madre scomparsa. Il corpo – la macchina dell'esperienza sensoriale e cognitiva – diventa quindi, in modo lirico, il riferimento universale che annulla la distanza con gli altri (si veda la dialettica insita nel titolo della prima raccolta vincitrice del Premio Laura Nobile del 1991, Noi Altri). Il corpo è nei testi i Passannanti il veicolo, lo strumento, la dimensione per raggiungere l’altro da sé.

 

Dicono: “in questa stanza ci sono troppi odori”.

Io non avverto nulla da questa mia distanza,

solo onde sull’orecchio, rumori,

dolori la cui origine

era la macchina.[16]

 

Nonostante il distacco tra simbolo e significante c'è una costante attenzione ai dettagli, mentre il verificarsi di rappresentazioni, spesso ironiche, non è mai elegiaco, ma dimostra una strategia a ricercare il significato nelle e oltre le cose. Le soluzioni stilistiche di Passannanti, io credo, superano il puro intellettualismo e lo sperimentalismo di forma e si presentano collegate a sofferenze ed emozioni universali, trasferite al lettore a provocare una reazione quasi didattica (o registica) di shock. Passannanti è allo stesso tempo ideatrice e portavoce di questa umana catarsi sul palcoscenico della poesia sperimentale. Le immagini scorrono continuamente dal surrealismo, al descrittivismo e all’espressionismo attraverso parole e suoni dissonanti che interpretano lo spazio tra oggetto e senso, con allegorie che ritornano al mito, alla religione e ai simboli di morte e rinascita. Di conseguenza, grazie alla profondità allegorica dei suoi testi, il senso comune viene non negato, ma reimpiegato perché emerga un altro possibile significato delle cose, non importa se di fatto (come nelle poesie di La realtà) o solo percepito (In Iugoslavia con i piedi a terra). E dove il descrittivismo entra nella sua poesia, non si traduce mai in una narrazione ex-facto della vita, ma piuttosto in soluzioni impreviste, che mettono continuamente in discussione i limiti della parola e i conflitti del contingente. Così come, ad esempio, la macchina dell'omonima raccolta (Macchina) cambia continuamente forma e funzione, ma rimane comunque una macchina fredda e distaccata dal soggetto. Per quanto riguarda questo aspetto, vale notare quanto Artaud osservò in una lettera-poesia indirizzata al suo amico Paule Thèvenin, scritta una settimana prima di morire: "dove c'è la macchina, c'è sempre l'abisso, il nulla", un concetto che troviamo spesso in Macchina di Passannanti.

Per concludere, il filo che connette le opere di questi tre autori – Artaud, Rosselli e Passannanti – indica un percorso di totale innovazione. Ma mentre la lingua di Artaud è un'esplosione sovversiva, ed il rifiuto di Rosselli di conformarsi è il suo modo autobiografico di usare il linguaggio come mezzo per ricongiungersi alla storia traumatica della sua famiglia (“[...] quando vinta / rispecchiati nella vittoria, che/ è l’indifferenza per tutto ciò/ che riguarda la Storia,[17] nella poetica di Passannanti, molto meno autobiografica, c'è più determinazione figurativa (fotografica, pittorica e teatrale).



[1] Per quanto riguarda le circostanze biografiche, Artaud trascorse quasi l'intera durata della Seconda guerra mondiale in un ospedale psichiatrico, soffrendo di deliri e allucinazioni anche uditive. Amelia Rosselli, oltre ad avere sofferto di ossessioni allucinatorie, per le quali si sottomise a sessioni di psicoterapia junghiana e poi freudiana a Roma, si prese cura di sua madre Marion Cave durante una lunga malattia.

[2] Amelia Rosselli, “Per misavventura credesti”, in Variazioni belliche (Variazioni 1960-1961).

[3] Erminia Passannanti ha completato una prima raccolta di poesie nel 1993 dal titolo Noi Altri, seguita da Macchina (2000), Exstasis (2003), Mistici (2003), La realtà (2004) e Il Roveto (2005) prima di pubblicare il poemetto sperimentale Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie.

[4] Mia conversazione privata con Erminia Passannanti, 21 febbraio 2005. “Quando una sera, dopo la cena ufficiale della rassegna Poesia ‘ì’90, la Rosselli, appena conosciuta, mi chiese di leggere il suo manoscritto scritto con una macchina Olivetti, non avendo ancora idea di chi fosse questa poetessa, ma provandone curiosità come “personaggio” apparso alla conferenza, lo accettai ringraziandola, promettendole di leggerlo e farmi sentire telefonicamente per dei commenti. Tornata a casa, lo appoggiai su una mensola, prefiggersi di darci un’occhiata. Passarono degli anni senza che riuscissi a trovare tempo per leggerlo. Riesco ancora a vedere quel manoscritto arrotolato e riposto sulla mensola dinanzi al mio letto, impolverarsi. Ero giovane all’epoca e completamente assorbita nella poesia inglese e nord-americana, soprattutto nel soggetto della mia tesi su Sylvia Plath. Tantomeno, quando nel 1993 scrissi la poesia “In grazia di Dio” avevo letto Pour en finir avec le jugement de Dieu. Ma certo, avevo già studiato il teatro secondo Artaud. Dunque, considero interessante questa sintonia poetico-tematica che tu mi indichi tra le mie poesie, quelle di Rosselli e quelle di Artaud. Nella mia poesia “In di Dio”, anch’io contesto la macchina capitalistica, che produce orrendi bambini bellici, responsabili della rovina del pianeta (questo tema ritorna in “Come quando nel Paese è festa”). Il concetto di macchina-essere pervade invece tutta la mia raccolta del 2000, Macchina. Ma soprattutto il poemetto che vi inserii, In Iugoslavia con i piedi a terra.

[5] Mentre si occupava della madre ospedalizzata, Passannanti teneva un quaderno dettagliato dei fenomeni della sua afasia linguistica e ri-editava in forma poetica le sue considerazioni sul significato della vita e della morte.

[6] “Di mia madre”, Exstasis, p.34.

[7] “Di mia madre”, Exstasis, p.34.

[8] A. Rosselli: “Contro del re dell’universo …” da Variazioni belliche.

[9] Amelia Rosselli “Contiamo infiniti cadaveri”, in Variazione belliche, cit.

[10] Cit.

[11] Erminia Passannanti, “Come quando nel Paese è festa”, in Macchina, cit.

[12] Amelia Rosselli, “I fiori vengono in dono”, in Documento (1966-1973)

[13] Amelia Rosselli, “Propongo un incontro col teschio”, ibid.

[14] “Intervista ad Amelia Rosselli”, in Amelia Rosselli, Antologia poetica, a cura di Giacinto Spagnoletti, Milano, Garzanti, 1987, p. 157.

[15] Erminia Passannanti, “L’attraente”, in Macchina, cit.

[16] Erminia Passannanti, “Macchina”, in Macchina, cit.

[17] Amelia Rosselli, Impromptu, 1979.

CRITICI INGLESI

PETER DALE in "Agenda", Literary Magazine, London, 2000.

«Erminia Passanannti is an Italian poet and the translator into Italian of, among others, Geoffrey Hill, Seamus Heaney and Sylvia Plath, R.S. Thomas. [...] Her use of the free verse is unusual from an English-speaking view, or maybe merely from a current British perspective, in that it is dominated and controlled by considerations of syntax-structure alone. This is further characterized by a large amount of disruption to normal syntax in the interest of irony, elegy, farse and point. Added to this, there is the use of language from a variety of registers and periods to create telling juxtapositions and sometimes expressionist and surreal effects. Phrases of memorial cultural significance are scrambled, rearranged and connected in surprising and shocking ways; the tone context of images is subverted and thwarted by such collocations and the vision travesties and contravenes expected codes of languages as with a dissociating mind. These shifts and contrasts are frequently slight - but deep and subtle in meaning. It is not possible to match all of them in another language. (...) Despite the quirky individuality of the Passannanti style, all of the poems presented here are forms of dramatic monologue with clear and sometimes weird personas. They are centrally concerned with proclaiming the right of human individuality and freedom, despite, and because of, the ties and fetters imposed by culture, history, religion, politics, and the familial system. Underlying this passion for freedom, runs a deeper motive force for it: a sense of vacuity of human endeavours and desires in face of the cosmos and society...»;

D. BARBOUR

«... A sense of sharp absurdity expressed through an inherited alphabet of symbols. And social/cultural pain always present beneath it all.»;

 R. BULKLEY

« ..the beautiful glances towards the atmosphere in your poem, reminded me strongly of the writing of John Cowper Powys.»;

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