ERMINIA PASSANNANTI Intervista con Ambra Zorat, 2007

AMBRA ZORAT

LA POESIA FEMMINILE ITALIANA DAGLI ANNI SETTANTA A OGGI.

 PERCORSI DI ANALISI TESTUALE.

(2009)

INTERVISTA CON ERMINIA PASSANNANTI[1]

Capitolo di tesi dottorale pp. 465/471

Nota Biografica sull’Autrice

È nata a Salerno e vive tra Oxford e Salerno dove insegna. Nel 1988 si è laureata in Letterature straniere moderne con una tesi sulla poesia di Sylvia Plath. In Inghilterra ha conseguito un dottorato di ricerca (Ph.D.) con una tesi sull’opera di Franco Fortini (University College London, UK, 2004) ed un secondo dottorato di ricerca (Ph.D., 2014) in Social Sciences and Media Communications (Brunel University, 2014, UK) sul soggetto del Cinema Italiano e la censura religiosa.

Tra i suoi libri di poesia si ricordano Noi Altri (1993, inclusa nell’antologia “I 5 Poeti del Premio Laura Nobile”, Edizioni Vanni Scheiwiller, Collana All’Insegna del Pesce d’Oro), Macchina (Manni, Lecce 2000, vincitrice del Premio “Laura Nobile 1995”), Exstasis (Lietocolle, Fallopio 2003), Mistici (Ripostes, Salerno 2003), La realtà (Ripostes, 2004), Il Roveto (Troubador, Leicester 2005), Il torsolo del ventre ed altre fandonie (Troubador, Leicester 2006). Sulla sua poesia è uscito il saggio di Laura Incalcaterra McLoughlin La macchina dell'Estasi (Lietocolle, Fallopio 2007). Hanno recensito ed introdotto le sue raccolte, oltre a Incalcaterra McLoughlin ed altri recensori su riviste e giornali, anche Romano Luperini, Pietro Cataldi, Guido Guglielmi, Francesco Muzzioli, Luca Lenzini, Giampiero Marano, Ennio Abate, Gianmario Lucini, Ambra Zorat, Antonella Sartor.

Come e quando ha iniziato a scrivere?

Ho iniziato a scrivere versi nel 1987, all’epoca in cui stavo quasi terminando il mio corso di studi universitari quadriennali in letterature Straniere Moderne, all’Università di Salerno, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia (1984-1988), e iniziavo a occuparmi anche di poesia nord-americana, e in particolare di Sylvia Plath su cui poi scrissi la mia tesi Le metafore ossessive nell’opera di Sylvia Plath (1988). Sono stata inizialmente influenzata dalla Plath, ma solo dal punto di vista stilistico, e non per le scelte tematiche. Mi ha soprattutto influenzato attraverso la pratica della traduzione. Nella mia tesi ho affrontato il problema della presenza nella Plath di una rete di metafore ossessive, impiegando la psicocritica di Charles Mauron. Dunque, l’aspetto psicologico della poetica plathiana, per quanto avvincente, non mi attraeva. Mi attraeva innanzitutto la sua potenza retorica. Questo mi era chiaro fin dall’inizio. Alcune di queste poesie erano traduzioni.

All’epoca ero in una relazione con Jamie McKendrick, il poeta inglese, lettore di inglese all’università di Salerno, un rapporto protrattasi per quattro anni, fino al 1988, con contatti fino al 1991. Le raccolte di McKendrick, The Scirocco Room e The Kiosk on the Brink, contengono alcune poesie su di noi. Quella sua scrittura così dettagliatamente descrittiva e autobiografica non mi ha influenzato se non come modello da non seguire. Nello stesso periodo, avevo un altro caro amico poeta, il tedesco Hans-Ulrich Treichel, anch’egli lettore a Salerno, con cui avevo stretto e mantengo una carissima amicizia imperitura. Treichel mi appariva un modello più elegante, con la sua ironia, la sua essenzialità, e la sua mente iperrazionale e allo stesso tempo psicologicamente fragile e complessa. Treichel poi divenne romanziere, avendo “abbandonato” la poesia o meglio (a suo dire) “superata”.

Quando ho veramente iniziato a scrivere poesia, concependo una raccolta (Noi Altri) avevo già tradotto molte poesie di Sylvia Plath per la mia tesi e tradotto per un’antologia di Ripostes, un centinaio di poesie delle sorelle Brontë, pubblicate con una mia introduzione nel 1999.

Quando nel 1990 ho incontrato a Salerno Amelia Rosselli, in occasione della Rassegna Poesia, e trascorsi una serata in sua compagnia, invitata nella sua camera d’albergo, al Jolly Hotel, discutemmo tutta la sera delle sue traduzioni della Plath e della mia tesi, con molte riflessioni sulla connessione forse troppo stretta tra la poesia della Plath la sua vicenda umana.

La Rosselli riteneva un limite un’aderenza troppo stretta tra biografia e poesia lirica, soprattutto quando vi siano preoccupazioni di rivendicazioni femministe, che secondo la Rosselli andavano affrontate al di là dell’angusto autobiografismo dell’Io auto-ossessionato, ovvero tramite la forma e la sua trasgressione. Avevo appena finito l’università ed ero già entrata a far parte di un determinato ambiente letterario accogliente. A contatto con altri autori, editori e critici, questa partecipazione mi ha stimolato a produrre in modo sistematico le mie poesie, a partecipare a premi, a organizzare la pubblicazione delle mie poesie in riviste, antologie e raccolte.

Che ruolo ha la poesia nella sua vita?

La poesia ha un ruolo essenziale nella mia vita: subentra alla dote che ho in me innata, quella del disegno, dote che non ho tuttavia coltivato, avendomi i miei genitori dissuaso dal frequentare l’Accademia delle Belle Arti per un corso di studi più concreto, quello linguistico-letterario.

Mio padre era uno scultore di qualche talento, ma non ha mai fatto l’artista di professione per vivere, bensì l’insegnante, come mia madre. Dunque, ho cercato di seguire il loro esempio, privilegiando i campi disciplinari della parola applicata all’arte piuttosto che le arti visive, verso le quali avevo una maggiore inclinazione. Pertanto, la poesia è una forma alternativa al disegno, per me, un mondo della rappresentazione fantastica, che si fonda su un elemento concreto come la parola, strumento equivalente al pennello e alla tela, alla carta e al carboncino. Nella poesia cerco lo spazio libero dell’espressività. Cerco la gratificazione della forma, oltre al dovere della testimonianza.

Non perseguo la naturalezza, ma l’artificio, la sregolatezza, non per amore mio, ...per amore della poesia. Che ci guadagno io? Io poeta è sempre incompreso, soprattutto se la sua è poesia di ricerca, “sperimentale”.

Esiste un rapporto tra la sua poesia e la sua esperienza biografia? Di che tipo?

Vorrei citare Rosselli, innanzitutto, per chiarire dei presupposti da cui personalmente non prescindo: “Nessuno ha voglia di scrivere di sé, salvo che trasfigurando l’esperienza e nascondendosi quanto più possibile dietro le scene evitando addirittura la parola l’Io. E spesso io ho avuto il problema di evitare la parola “tu” (…) Se il rapporto diventa plurale, si può parlare di un discorso ad un pubblico; se non è al plurale, tanto vale non farlo.” [2]

Non scrivo poesia lirica per esprimere il disagio e la gioia dei miei sentimenti. Non è questo il mio progetto, il mio proposito (o poetica) Probabilmente inizialmente l’ho anche fatto, per dare espressione ad un dolore circostanziale, altrimenti incomunicabile. Ma questo per me è uno stadio che ho voluto abbandonare, da cui ho voluto emanciparmi, da poesia “chiusa nel cassetto”, che non si vuole e nemmeno si può mostrare. Per essere meno teorica, dirò che un rapporto tra la mia biografia e la poesia esiste, certo, come educazione al verso, nel senso che oltre al disegno, la prima nozione che ho appreso è stata la poesia. Da bambina, prima che iniziassi le scuole elementari, quando la nostra vecchia balia era malata, mia madre mi portava a scuola con sé, e mi sedeva in un banco, tra le sue allieve, per tutto il tempo della lezione: il mio primo ricordo vivido è di avere imparato a memoria all’età di quattro anni le poesie di Leopardi e di Pascoli, sentendole ripetere cento volte dalle allieve di mia madre.

La poesia in forma orale come memorizzazione e recitazione mi è giunta dunque prima di quella scritta e non avevo problemi a fissarne la forma mentalmente già a quattro anni. Mio padre mi recitava versi dalla Divina Commedia per intrattenermi o per farmi addormentare. Mia madre, invece, mi faceva imparare a memoria strofa per strofa all’infinito le poesie del programma di quinta elementare. Fatto sta che questa convivenza quotidiana con la poesia era nella mia famiglia perfettamente normale. Rimanevo incantata ad esempio, ascoltando terzine dell’episodio del Conte Ugolino nell’Inferno recitate dalla voce lenta e cavernosa di papà:...“la bocca sollevò dal fiero pasto” …è il dettaglio che ricordo più vivamente. Ma come? E papà precisava: “…forbendola a capelli!... (e simulava il gesto). Mi faceva paura quella orrenda scena ma anche mi affascinava come la recitava mio padre. Presumo che durante questi anni prescolastici, essendo stata esposta alla poesia come evento, e non avendo avuto davanti, per qualche anno ancora, il testo scritto di quelle difficili poesie che recitavo a memoria, il riprodurle mnemonicamente abbia messo in evidenza il loro senso tramite le immagini e abbia privilegiato la loro dimensione fonico-prosodica. Da bambina, giudicavo la poesia come un evento vocale, sonoro, teatrale, che coinvolgeva il corpo: tendo oggi a scrivere poesie fortemente recitative, con Io poetici altri da me.

La poesia per me è essenzialmente memoria culturale ed affettiva che trasporta nell’oggi di chi scrive e di chi legge poesia il suo complesso valore, una sorta di archeologia della memoria di una lingua e di una cultura che, con il potere proprio della tradizione, come in North di Seamus Heaney, connette passato e presente e implica anche un suo inevitabile superamento. La poesia è, pertanto, memoria e conoscenza, assunzione di responsabilità verso la propria cultura, il proprio patrimonio, che ciascun poeta può tuttavia modificare e ampliare apportando contributi di ricerca e trasgressione (dopo un saldo apprendistato).

La scrittura poetica per me procede come la memoria proustiana, di ipotesi in ipotesi, si aggancia ad innumerevoli realtà, al tempo e allo spazio dell’esistenza di altri poeti, a quelli della mia vita vissuta e a quelli dell’esistenza immaginata, al linguaggio proprio e a quello altrui, alle forme che assumono queste interazioni. Io scrivo e ho scritto sempre pensando di dare voce ai morti, a chi non ha una voce, e a coloro che verranno. Per me la poesia è insieme memoria e profezia.

Si è mai posta il problema del rapporto tra scrittura e condizione femminile? Se sì, quando?

Per pormi questa questione dovrei innanzitutto sapere senza ombra di dubbio cosa sia l’essere “al femminile”, e sapere rendere conto in modo onesto di come questo essere femminile si esprima in me. Purtroppo, sono molto confusa in merito. So cosa sia il mero orientamento eterosessuale/femminile che è in me, e cosa mi induce a fare: ovvero, ne potrei parlare in modo descrittivo, come di una serie di atteggiamenti, o maschere, osservabili, volte a un guadagno, e anche commentarne gli aspetti psicologici, ma non so come la “psiche” di questi miei atteggiamenti e mie aspettative si traduca effettivamente in senso scritturale in un Io femminile o maschile: mi vedo più sfumata, più polivalente nell’uso del linguaggio e della forma poetica: infatti, faccio ricorso a dramatis personae.

Uso figure dell’artificio. Io scrivo da una prospettiva essenzialmente etica in cui maschio e femmina si fondono su un piano di parità. Mi farebbe orrore, da un punto di vista morale, dissociarmi dagli uomini, da quella grande parte di uomini sensibili che sono per tanti versi simili a me, come donna. È con questo tipo di individui che condivido i miei interessi: è tramite loro che vedo molti punti di contatto tra identità maschile e identità femminile. La violenza contro cui mi scaglio è quella della società cosiddetta maschilista che ha, secondo Foucault, base economica. Noi chiamiamo maschilista, sciovinista, e patriarcale la logica del potere economico: abbiamo attribuito a questo complesso disumano di poteri il genere “maschile”.

Ad ogni modo, non saprei rispondere anche perché oggi l’essere o l’appartenere ad un dato genere sta diventando sempre più una questione di look, e sempre meno una questione di realtà genetica o identità psicologica.  In letteratura si sono da sempre superate queste distinzioni tramite l’assunzione di quella che chiameremo “Vested Voice”. Insieme a Rossella Riccobono abbiamo appena redatto un volume, dal titolo appunto Vested Voice. Literary Transverstitism in Italian Literature, sulla possibilità che lo scrittore ha di dissimulare il proprio genere, come ha fatto Virginia Woolf in Orlando, o Alberto Moravia, ne La Ciociara, di eludere il dilemma di dover rendere conto della propria identità sessuale psicologica, genetica o socialmente imposta. Il mio impiego delle dramatis personae tuttavia non rappresenta una riflessione sull’ambiguità del genere in quanto tale, ma sull’ambiguità dell’esistenza e del pensiero in sé 

L’uso dell’espressione “poesia femminile” cosa suscita in Lei? Perché?

Per le ragioni sopra elencate, ho una certa riluttanza a parlare della mia poesia come poesia femminile. La definizione non si può applicare se non in senso marginale, ferma restante la possibilità di definire o di pervenire ad una intesa su cosa si intenda oggi per “femminile” e “maschile”, oltre il concetto di Natura. Verso i miei figli mi sento insieme padre e madre. La tradizionale dicotomia maschio-femmina è diventata un ambito mentale ambiguo e pieno di azzardi.

Esiste una poesia femminile? Se sì saprebbe identificarne qualche caratteristica specifica? Se no perché?

Un esempio: Sylvia Plath - e non la Woolf - scrive al femminile. La Woolf è pansessuale, come del resto Simone De Beauvoir. Plath nega la parità. Vuole stabilire una discrepanza o meglio un abisso tra i sessi reciprocamente fatale sia per l’uomo che per la donna. Non vuole risolvere questo abisso, solo denunciarlo. Dunque, si offre come vittima del mondo persecutorio maschile, come leggiamo in “Daddy” e “Fever 108”. Ha una scrittura psicologica ed edipica. Espone il complesso di castrazione. Lo critica in sé e lo disprezza, disprezza il mondo che lo induce. Vi cerca rimedio marginalmente con il “mito del mondo delle api”. Ma in fondo non lo conferma né assume a modello. A livello profondo rimane soggiogata dal padre oppressore, dal “Colossus”. Muore e si immola per l’uomo, per protesta ed amore irrisolto.

Quali sono i temi più importanti nella sua poesia?

Il corpo come istanza poetica, l’immaginazione, la meta-scrittura, la ferita del vivere, l’essere per la morte: sono temi esistenzialisti, giocati sul piano espressivo surreale ma soprattutto ultimamente espressionistico. La bruttezza e l’indecenza, l’ingiustizia, il mondo come prigione. La libertà offerta dal logos, come rispetto e insieme come irriverenza. L’eterna rivolta dell’infanzia contro il mondo degli adulti, delle leggi e dei dati di fatto, ma anche il profondo attaccamento alla vita come religione e mistica. La martirologia. L’artificio. Il mondo della caducità. Il dubbio. L’inconscio. 

 Il tema della finzione nelle sue connotazioni positiva e magica (sogno/ incantesimo) ma anche negativa (menzogna/ mistificazione) è importante nella sua poesia?

Si, il tema dell’artificio è molto importante: centrale per me. Tendo ad un’idea di poesia tendenzialmente formalista e costruita in modo visibile. Questo modo di scrivere ha avuto inizio per me già nelle poesie della raccolta Macchina, in cui c’era appunto inserito un poemetto sperimentale che ha dato il titolo alla raccolta.

Le sembra che la sua poesia sia fondata su un sistema di opposizioni tematiche: paradiso/inferno, mito o fiaba / quotidianità, amore / guerra, sogno / realtà, alto / basso…. Se sì, potrebbe esplicitare il senso di tali opposizioni? Vi si potrebbe leggere qualcosa di tragico ed ironico allo stesso tempo?

La scrittura poetica, come ogni arte, appartiene all’effimero e all’intemporale, si erge oltre la vita e oltre le circostanze concrete, umane che l’anno motivata, istigata. Non per niente, la poesia ha connaturata in sé una tendenza postuma. Questa tendenza non è certamente inedita, attuale, tutt’altro. La poesia che viene dal mondo e va oltre il mondo assolve proprio a questo doppio compito di soddisfare la tensione estetica e di rimandare alla verità che le fa da fondamento, una verità spesso rimossa, presente unicamente in effige. Si tratta di domini interconnessi, come quelli del maschile e del femminile, di cui si parlava innanzi, polivalenti ed ineffabili, che per comodità e vizio di giustizio spesso definivamo con il termine negativo “ambiguità”.

Come definirebbe lo sguardo che tramite la sua poesia posa sul mondo?

La mia Weltanshaung sul mondo è ironica, assurdista, ludico, drammatico, essenzialmente etica, post-cattolica, apparentemente irriverente, ma alla base, profondamente affettivo, se non addirittura di venerazione. Come della figlia che attacchi la madre per troppo amore e troppa compenetrazione. Deve attaccare per distaccarsi, per recidere il cordone e dare a sé via libera. È come se nei miei versi ci fosse teorizzata questa pulsione adolescenziale, che porta la mia poesia ad assumere atteggiamenti di scontro, irrispettosi, verso ciò che so averla generata (quei versi che a 4 anni recitavo a memoria). In questa lotta perpetua, intestina con tutto ciò che in me convive, sta anche tutto il rispetto e la consapevolezza del valore di ciò che mi precede e che mi forma. Ma questa Weltanshaung non la ritengo in nessun modo definitiva, fissa, stabile, in quanto l’avverto piuttosto come un desiderio in itinere, verso il mondo e verso il linguaggio: il mio ideale è quello di cambiare, o meglio evolvere, di continuo il mio modo di scrittura sul piano dell’immanenza, tramite questi scontri con le realtà del presente che fluttuano nella cultura e modificano la mia scrittura. Insomma, la mia Weltanshaung è una sorta di cantiere.

Il corpo è centrale nella sua produzione poetica?

Centralissimo. La parola è per me il corpo. Dal punto di vista speculativo del rapporto corpo e parola, sono stata molto condizionata dalle filosofie di Merleau-Ponty, Lacan, Foucault e Kristeva. Se sul piano dei contenuti tematici sono stata influenzata da Artaud, De Sade, Ford, Bataille, Kierkegaard, sul piano formale sono debitrice per l’organizzazione del linguaggio e dello stile a Dylan Thomas, Beckett, Ionesco. L’uso retorico estremista dell’immagine e della visionarietà la ricavo dalle lezioni di Buñuel, Pasolini, i surrealisti in genere, e i grandi mistici.

Potrebbe parlarci brevemente della lingua poetica che caratterizza i suoi testi?

Sperimentale: meticciata, un misto di lessico ed espressioni colte e di lessico ed espressioni popolari (l’ha affermato Guido Gugliemi e l’ha ribadito Luca Lenzini nelle loro introduzioni a In Iugoslavia con i piedi a terra (Guglielmi) e Il Roveto (Lenzini). Si tratta di una lingua meticciata (Lenzini), con varietà lessicali e di espressioni, anche dall'inglese (Guglielmi) e da vari generi interconnessi: poesia, saggistica, monologo drammatico, discorso pubblico, eccetera. Ma non è sempre così: ho scritto molte poesie liriche, specie nella raccolta La realtà. In verità ho vinto due edizioni del premio nazionale “Laura Nobile” per le mie poesie liriche. Furono molte apprezzate da Franco Fortini.

In Il torsolo del Ventre ed altre fandonie, ho invece usato delle espressioni e dei registri commisti, desunti da una parte dalla cultura alta borghese e dall’altra da quella popolare soprattutto meridionale laddove quest’ultima la impiego per il recupero dell'espressività di quello che Bachtin definiva il “basso-corporale”. Ho anche fatto uso profuso di linguaggi specialistici (linguaggio ad esempio, religioso, legale, medico, tecnologico, commisto a linguaggi tecnico-protocollari, come ha notato Luca Lenzini.

Ad esempio, uso quelle rime e cadenze tipiche della poesia italiana classica, innestandovi sopra i ritmi del "parlato, con una prevalenza alle volte della dizione lirica e alle volte dell’intensità espressionistica. (Guglielmi).


Raccolte di Erminia Passannanti

I 5 Poeti del Premio Laura Nobile

(Vanni Scheiwiller, 1995)

Macchina

(Manni Editore, 2000)

Mistici

(Edizioni Ripostes, 2003)

Exstasis

(Lietocolle Editore, 2003)

Il Roveto

(Troubador Publisher, 2005)

La realtà

(Edizioni Ripostes, 2004)

Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie

(Troubador Publisher, 2006)

Il Morbo

(Edizioni Biagio Cepollaro, 2007)

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 



[1] Testo parzialmente rivisto dall’autrice intervistata (luglio 2020).

 

[2] Cfr. Intervista rilasciata a Mariella Bettarini e presentata al convegno Un’apolide alla ricerca del linguaggio universale, tenutosi a Firenze presso il Gabinetto Viesseux in data 29 maggio 1998, a cura di Stefano Giovannuzzi. Gli atti del convegno sono raccolti nel n. 17, 1999, dei “Quaderni del Circolo Rosselli”.

 

Popular posts from this blog

“O, never say that I was false of heart”. Love pretence in William Shakespeare's Sonnet 109

Biografia