Luca Lenzini. Introduzione a Il Roveto. Poesie.


Luca Lenzini

Su Il Roveto


L’ironia delle rose

 

 


Parlando della poesia di Erminia Passannanti, la critica ha impiegato termini e categorie di chiara matrice novecentesca: surrealismo, onirismo, frantumazione dell’io. A ragion veduta, poiché alcuni moventi profondi della scrittura dell’autrice, ben presenti anche nel Roveto, sembrano appartenere ad una zona di confine tra realtà e immaginazione, inconscio e ragione, in cui l’io si fa teatro di apparizioni e sottrazioni governate da una “logica fantastica” (così Guido Guglielmi), imprevedibile e impertinente. Una tal logica opera tanto nei nessi costruttivi, quanto in quelli linguistici, per via di spostamenti e febbrili alterazioni: in questa raccolta, in particolare, essa si manifesta attraverso la costante contaminazione di elementi eterogenei e non di rado contraddittori, vedi l’uso di lessico corrente e colloquiale -“non per niente”, “arrivederci e ciao” (attribuito a Cristo) - e, negli stessi testi, di arcaismi che sfiorano il kitsch; la presenza di linguaggio di matrice religiosa unito a schegge di registro tecnico-protocollare o d’inglese; fino al complessivo configurarsi di una lingua ibrida e meticcia, senza più una vera patria. Ecco allora le “distese nivee” e (nel medesimo verso) la “soglia fosca”; il latino liturgico ed il “comma 3 dell’articolo bis”; ecco gli “arcani gioiosi” ed i “misteri angosciosi”, “bolo” e “postribolo”, “socialmente determinato” e “redenzione”.
Alto e basso, spirituale e sensuale, fisico e mentale, concreto ed astratto entrano dunque a parità di diritti nella trama dei versi, ma senza forzature e come per inseguire una visione “oltre il velo e la nube dell’impermanenza”. Il bersaglio è ambizioso; tanto che per un paradosso non infrequente la tensione ad una ricomposizione o sublimazione dei conflitti soggettivi nello specchio multiplo del testo (il versante esistenziale che legittima il richiamo alla Plath di alcuni lettori, ma certo altri nomi si potrebbero fare) si rovescia in una forma di ironia, come per una dialettica destruens che guadagni per via di negazione (o regressione) quel segno astante, quella promessa di pienezza che si sa disattesa e inattingibile: “nella distanza la speranza / nel contorno il giorno / nell’immediata presenza l’assenza / per lor capacità di cogliere in essa / idee inadeguate all’ispezione attenta” (Teoria della pintura). E con speculare contrappasso, il rigoglioso teatro barocco di una mimesi tendenzialmente senza limiti, immaginosamente estroversa e spavalda, può talora virare su tonalità più sobrie ed assorte, l’io mutarsi in quello dell’“unica spettatrice tra tante sedie vuote” (Il sentiero delle more).

Nella poesia Roveto III, che mi sembra uno dei cardini del libro, il verbo cercare compare otto volte. Tutta la struttura del testo, forse la stessa metrica offrono al lettore la traccia, il riflesso di una ricerca, di una quest perseguita sulle orme dei grandi mistici; ma è significativo che il “poemetto” – così recita il frontespizio del libro, nonostante esso si presenti come una sequenza di composizioni tra loro distinte ed autonome - sia tale non in virtù di un disegno narrativo, bensì di una istanza che, complice la dialettica e la teatralità di cui sopra, si starebbe per dire di ordine “pedagogico” – pedagogia il cui oggetto però si rifiuta alla presa, si nega, ricade fuori da ogni regola quanto più di regole, preghiere e divozioni si popolano i testi.
Affiora qui a tratti, sia nella ricerca di un ordine strutturante perseguito senza racconto, sia (e soprattutto) a livello linguistico, una genealogia nobile ed impegnativa, in cui assume particolare rilievo un testo di Franco Fortini che Passannanti ha tradotto e commentato, La poesia delle rose, del 1962. Scosceso crinale: nel testo fortiniano infatti il cozzo di ragione e non-ragione, ordine e disordine, mobilita un universo simbolico-culturale di spessore inusitato, una dialettica figurale sapientemente orchestrata e ambivalente, in cui interno ed esterno si sfidano e insieme si scambiano le parti; mentre il plurilinguismo e l’ironia desublimante (Luperini ha parlato per la Passannanti di sdoppiamento umoristico) che percorrono il Roveto mettono in scena una via crucis di altro genere, anch’essa discontinua e tutta consegnata a intermittenze psichiche ma meno controversa e fosca, e segnata piuttosto dalle ferite di Eros. Ma poi, quale sarebbe l’insegnamento da guadagnare in conclusione a un tale itinerario di dérèglement e di negazioni? A quale sapere allude la finta tavola di pie disposizioni allestita nel testo?
Sembra anticipare una risposta, dalla soglia del libro, una dichiarazione o lacerto in prosa a carattere gnomico. Vi si legge, in chiusa: “La guerra è continua, imponderabile. Il trasformarsi del consenso in ignoranza è la condizione della sopravvivenza. Questa è la mia percezione dei rapporti di potere: di abuso e legittimità. Tutto è allegorico.” Ora, è raro imbattersi in affermazioni così nette, eppure così sensate, nell’introverso, elegiaco universo della lirica; ma chi volesse trovare nei versi riferimenti puntuali, specifici al presente storico (e non, di questo, obliqui frammenti o cascami lessicali) rimarrebbe deluso, e potrebbe sospettare che l’affermazione conclusiva, “Tutto è allegorico”, non sia che un generico passepartout per contrabbandare moti e moventi di natura squisitamente soggettiva. Nondimeno, non di contrabbando si tratta; perché nel Roveto esposizione del soggetto e tensione allegorica coabitano in una strana, anzi straniante simbiosi, allo stesso modo in cui l’elemento intellettuale dell’ironia rafforza, non annulla l’ardore mistico dell’imagery. Ed importante è anche l’accenno alla guerra, per cogliere l’elemento di violenza che circola nei testi – una violenza diffusa e ritualizzata, legata a immagini di sacrificio. Del resto ironia e allegoria non hanno almeno questo in comune, che alludono ad altro? E infine tutto il tessuto verbale di aperta derivazione religiosa del Roveto, che prolifera in versi e prose, non sembra tradurre con intenzionale eccesso le infinite, imponderabili forme dell’abuso, sconsacrando e sfidando la tradizione per svelare il dominio?
Tutto è allegorico, certo. Almeno per chi non si arrende al così è eternamente irradiato dai monitor, quotidianamente ripetuto dalle voci stridule degli opinion-makers; per lo sguardo che non si appaga dell’apparenza, e tenta tutte le strade per cogliere altro dalla violenza tautologica, normativa della “doxa”. Ce n’è un’eco nelle meticolose, anzi pedanti istruzioni corporali per l’educazione dello spirito che con burocratico sadismo il Roveto infligge al lettore; ed è la zona più nuova esplorata dall’autrice rispetto alle sue prove precedenti, quasi un copione per l’espiazione di un personaggio tra Beckett e Almodovar. Ma a quell’ordine replica, con inversa oltranza, il disordine dell’io con i suoi conflitti e le sue abbaglianti visioni: il sentiero delle more, i monaci che scendono solitari tra i monti, un volto bellissimo. Non si prendano troppo alla leggera, perciò, le prescrizioni dell’Esercitazione all’ascolto. Un altro ordine c’è, indecifrabile, inaudito, il cui segno è portato dalla poesia come la croce o la spina di un’invisibile tatuaggio.

Luca Lenzini

 

Copyright © Erminia Passannanti 2005

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ERMINIA PASSANNANTI

IL ROVETO
Poesie

Prima edizione: 2005

COLLANA TRANSFERENCE
Poesia Contemporanea









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