In Iugoslavia con i piedi a terra. Poemetto, Erminia Passannanti
ERMINIA PASSANNANTI
In Iugoslavia con i
piedi a terra
- Poemetto -
(1993)
Erminia
Passannanti©2000 All Rights Reserved
In
Iugoslavia con i piedi a terra.
Poemetto.
Collana
Transference
Già
pubblicato in Macchina,
Manni
Editore, Lecce, 2000.
Sec.
Ed. 2011
ISBN: 978-1-4477-9103-4
BRINDIN
PRESS – SALISBURY, UK
A mia Madre
(1920-1998)
Il
materiale espressivo e narrativo di questo poemetto appartiene all’eloquio
affabulativo delle memorie di mia madre, da me trascritto ovvero riscritto in
forma di poemetto nel 1993. Dunque, è coautrice dei contenuti di questo
poemetto, per buona parte, la Signora Angela Rosa Conte (insegnante di ruolo
dello Stato italiano)
INDICE
Presentazione di Guido Guglielmi........... 5
Macchina........... 8
Calcolo........... 13
Miasorella........... 16
La Principessa e il cane........... 19
La soffitta........... 23
Il tombino........... 29
L'attraente........... 32
La discordia........... 33
La tessitura........... 34
Presentazione di Guido Guglielmi
Le
poesie di Erminia Passannanti, dal poemetto In Iugoslavia con i piedi a
terra, contenuto nella
raccolta Macchina
(Manni Editore, 2000) procedono narrativamente, ma senza comporre una storia.
Così un verso casuale in apparenza — un riferimento al presente storico
drammatico — può dare il titolo alla raccolta. Il linguaggio è basso o
basso-familiare, ma tutti i rapporti interni sono alterati. Una logica
fantastica provvede a legare gli spezzoni narrativi. La mimesi è sottoposta a
un'intenzione antimimetica. Ne deriva un'instabilità di oggetti. Tutto è presentato
in stato di metamorfosi. Gli oggetti li riconosciamo subito, ma sono
sistematicamente dislocati, spostati in luogo improprio. Si potrebbe dire che
solo quando le cose sono fuori posto, noi le osserviamo. E infatti parliamo di
spaesamento (o straniamento).
Ma qui non è questione di spaesamento. Non si tratta qui di
attingere una percezione delle cose che le sottragga all'azione delle
convenzioni. E non si tratta neppure del piacere delle combinazioni perverse,
del gusto anarchico di rompere la gabbia razionale che impone ordine al
disordine. Altro — sembra — è il senso delle trasgressioni linguistiche. è
soprattutto la violenza dell'operazione che si impone su ogni altro effetto. E
questo fondo espressionistico porta al di là del piacere del testo. L'oggetto
dislocato è un oggetto malfermo e infermo. “Qualcosa si deteriora, come è
successo a me” — è detto in una poesia.
Gli arbitri dell'immaginazione sono
espressivi di una crisi radicale di identità, di una contraddizione patita
fisicamente tra apparenza e inapparenza, proprio e improprio. La Passannanti
non dice la faccia libera delle cose, dice la loro ostilità. Tenta un
inventario di se stessa, e il calcolo non torna: “Non avevo il Principio — che
è il numero./ Il numero che mi doleva nei ricordi”. Ma mentre riprende processi
oscuri, li ripete attivamente, ricava dalla sofferenza una possibilità di
gioco: “Le fibre della vita sono tutte imponenti./ Ognuno desidera esprimere
qualcosa./ Quanto a me, vorrei un pediluvio innocente.”
Ed è questo un momento importante delle sue poesie. Lo humor surreale delle mescolanze è il suo modo
di trattare – e cioè di elaborare – il negativo. Esso assicura quel margine di
autoironia e di trascendenza che permette di parlare di eventi altrimenti muti
(come sarebbero gli eventi del sogno). E fa che il libro sia un libro di
passione non soltanto, ma anche di conoscenza.”
***
In Iugoslavia con i piedi a terra
Mantiene il carrello lungo
la pazzia,
segue piano il binario,
chissà
cosa succede nel cuore
della notte,
(il carrello lungo la
pazzia
mi tiene in alto).
Capitano, i casi,
all’orologio minimo.
Bisogna starci attenti.
Utile non avere troppe
nozioni d’arte,
(medici vanno e vengono,
fanno le cose a sfregio,
mentre il braccio mi
sgocciola).
Dicono: ‘In questa stanza
ci sono troppi odori.’
Io non avverto nulla da
questa mia distanza,
solo onde all’orecchio,
rumori,
dolori la cui origine
era la macchina.
Vibrazioni sbagliate
prodotte
a notte da note dolorose.
La macchina rotta.
Tanto vale farne senza,
preferisco non averla,
me la rompono apposta.
C’è chi vi siede e lavora
per impedire che lavori
chi l’aveva.
Chi l’aveva si dibatte e
si dispera.
Non vuole cucire la
biancheria.
Ho pianto la vita.
Adesso rido.
Appunto per questo, per la
macchina,
(vedo come lo sfregio
continua
ignoto sulla stoffa).
Stavo come un Lucifero, il
mio bel nome
dissipato dal dubbio
di una lurida
insinuazione.
È stata tolta.
Mi sento rinascere.
Se scompare piango, se
ricompare
divento uno straccio, a
casa mia mendica,
una mendica in casa
propria,
la sorte decisa d’un
tratto,
presa nell’ingranaggio,
così.
Sorse un rumore che mi
dava fastidio,
un fastidio arrecato da
qualcuno
che si era preso la briga
di far saltare le molle.
Di notte non procedeva.
Volevo vedere fino a che
punto
riusciva a realizzarsi nel
suo fondo,
mostrarlo a chi l’aveva
messa in palio
con l’essere vivente, che
tutti i giorni
(con essa) funziona.
Stiamo parlando della
macchina,
una macchina nera
che non posso più
usare–giacché manca
dei ferri. I ferri che
servono a se stessi.
E ditemi: se questo
qualcuno
se n’è servito, a chi ha
ceduto i congegni
che aiutano a usare la
macchina?
Li ha ceduti a qualcuno
senza macchina,
che furoreggia senza
controllo,
che ritiene, senza diritto,
il mio carrello
escandescente, mentre
pretende da me
il martello, il meccanismo
a molle, tutto
l’occorrente per potersi
sollevare? Non interessa
il mio necessitare di una
matita, di una penna?
Mi tengono chiusa in
questa stanza
insieme a un nero ordigno
che sfrutta le mie
risorse.
Non sa usarlo, la ragazza,
e l’ha trasferito altrove,
l’attrezzo.
Una piccola macchina per
cucire
che diverge i suoi
pensieri.
Ci sta attenta e riuscirà
ad usarla,
mentre io smarrisco la via
oltre l’imbastitura.
Non riuscivo più a
infilare l’ago,
a girare la manovella,
a sentirmi umiliata,
annientata, ‘Povera me!’,
dicevo ‘Sentirmi uno zero
dinanzi a quei lavori
irrilevanti
che l’altra saprà a fare,
e io non più.
No, non ci vedo.
No!’
Ma so parlare, esprimere
desideri:
prendo l’ago, lo metto
alla finestra,
lo faccio agire.
Lo faccio ingoiare
a chi non sa leggere
i miei pensieri,
a chi marcia o fa l’orlo.
La mia macchina funziona
con tutte le bellezze
dell’inverno,
quelle che hanno perfezionato
il mio udito.
Conosco le bellezze
dell’inverno,
e credo siano quelle
che esaltano l’ordito.
Vadano tutti via da casa
mia.
Non voglio in giro
macchine da scrivere.
Vengono qui a fare i
poeti!
(Questo fastidioso
martellare
fa pensare alla mia finestra
rotta.
Penso sia utile alla
dissipazione della casa.
Sono iniziati i lavori
dappertutto.
Non c’è silenzio,
intorno. Non c’è pace.
Martellate,
randellate. Sempre.)
Calcolo
Sette giorni fa siamo stati là
- c'era una tomba
salivo quel cumulo fino a un certo
livello dello spasimo.
Lo spasimo che sta
in fondo alla natura.
Lo tacqui.
Credevo non portasse conseguenze
tali da ipotizzare un prematuro fallimento.
In quell'istante ebbi un capriccio umano
che m'invogliò lo sfogo.
Non riuscii a contenermi.
In quella scossa di valori ci ho capito ben
poco,
essendo in se stesso invariato, il valore
-
e
percepito quattro.
Il valore della normativa é quattro e mezzo.
La normativa é trasformare
il quattro definitivo in quattro e mezzo.
Non avevo il Principio
— che é il Numero.
il numero che mi doleva
nei ricordi.
Mi dicevo: questo numero
che viene all'improvviso
ha uno sfondo malefico.
Quel numero chiaro, dai chiari principi morali,
che vedo così splendido fuori,
non é il numero che sento inciso.
Retrocedi da questo pensiero.
Possono esserci angeli,
in questa stanza, come diavoli.
Sono venuti due bambini, sono gli angeli.
Di diavoli non ne ho visti — ma
non faccio pronostici.
La mia energia defluisce. Deliberatamente.
Il numero della fragilità, il numero sotto
compatto
che in alto é fragile, non è attinente in basso
al quattro.
Al momento ideale non si può decidere niente,
una volta crollata la memoria.
Ebbi come un luccichio
nella mente, nell'attimo totale
dell'oscuramento,
mentre comunicavo all'esterno i dati della mia
perplessità.
- non si rilevano i dati della perplessità?
i numeri della perplessità animati
a sfogare uno strano delucidamento?
Un valore effimero, dalla natura più nascosta,
senza relazione alcuna con il dosaggio di
fortuna
degli attimi agitati coi cristalli.
Infine si trova, quell'effimero valore.
Devo tenerlo sempre a quattro.
Quattro e mezzo é valore eccedente — lo decreta
questa mia potenza fantastica (dissero sette,
ma in realtà è sei, un sei che evolve).
Nei paragoni metti tre nel quattro. Nessun altro
numero conta.
Sul cinque
non ho ancora fatto alcuna riflessione, ma credo
non esista.
— il quattro aderisce al tre, il tre al quattro
magnificamente (anche spostandosi sul tre e
mezzo).
Miasorella
Quando si creano strani contrasti
nell'ente della vita, quando nel video
mi vedo vitrea, voglio essere membro di
Miasorella,
non membro dissestato di me stessa.
Non v'era un pizzico di brio
che facesse oscillare le nostre campane.
Al risveglio, credetti m'avessero imbalsamata
e calata in un pozzo, per quella scarsa
conduzione di calore.
Verificate non nasconda una lesione.
Controllate bene fino all'ultima fibra.
Mi percepisco, ma perlopiù non sono in grado
di reagire alla lesione che avverto.
Adesso penso sia sul fondo bianco
che racchiude i tessuti — un punto nero
contro uno sfondo slavato che non regge.
Ero rimasta al fondo del discorso, per ore ed
ore,
sulla ferrovia, e mi ero messa nell'anima di
un'altra.
O, piuttosto, nell'adagiarmi spargendo le piume
feci in modo che il suo destino
riuscisse a coinvolgersi col mio.
E cercai di fossilizzarla, nel suo campo.
Stavo seduta a terra.
Come avvenne, la fossilizzazione,
non l'ho capito. Mancava la base di un commercio
che unisse le sue idee alle mie, perfino la
merce
dello scambio.
Rimase intera a terra.
E io soffrivo.
Ero a terra. Contavo. Giocavo alla campana o a
nascondino.
Me ne stavo seduta a terra. Guardavo la sua
vita, lei la mia.
Era vestita di blu, con un largo cappello.
Sorella, —
le dissi — il marcio
gettalo via.
Quando due armeggiano
sulla stessa ruota,
una deve togliersi di mezzo.
Quindi le accadde un dramma patologico.
Succederà anche a me, in treno, in tram,
mentre cammino per la strada con la lesione in
tasca.
Temeva d'essere implicata
nelle mie funzioni.
Gliele ho negate tutte.
Le mie funzioni sono le mie bellezze. Così
marcio nel flusso.
Quanto a lei, rimase da sola col suo gioco.
Si fece livida livida.
Gridava: non bruciate le mie lenzuola!
Le sue lenzuola nessuno voleva bruciarle.
La Principessa e il cane
Stasera finisce la Principessa.
Per le sue bianche mani non ho intenzione
che mi seguano. Andrò via
alle dodici e trenta.
Non individuava la natura pulita
e quella depressa.
La natura pulita era avere delle bende,
la depressa, non averne.
Con quattro bende non si stava sporchi.
Tre bende erano poche, quattro molte.
Avere le membra chiuse in una supremazia di
silenzio.
Che non potevi escludere dall'alto dell'anima.
Passavi su lontani ideali quando nel vento
non riuscivi a raggiungerti tutta.
Si faceva spiritosa, idilliaca. Più spesso
ideologica.
Non rispondevo — in un momento così estremo per me — a chi lottava per la luce.
Piange, si dispera, invoca aiuto.
Un aiuto che non ha. E la vita
travolge le future istamine,
la mia indolenza.
Passerà. E me ne andrò in un luogo lontano
dove non vedrò più nessuno.
Neanche fossero state raminghe,
le effettuazioni esercitate da quelle romantiche
fuori posto! E se pure
raggiungevano qualche briciola del corpo,
quell'insufficienza deleteria mi riduceva uno
straccio.
Questo cibo dell'anima non arriva
alle mie palpebre, in questo clamore
non riesce a raggiungermi.
Padre mio, Madre mia, io vi chiedo: cosa c'era
con voi
che faceva sognare il mio cuore?
Il vostro cuore crivellato nell'ora
dell'alzabandiera.
Nel cuore di sua madre non c'era più un ricordo.
Nel cuore di suo padre non c'era più un ricordo.
Nel cuore della madre e del padre erano finiti,
i ricordi.
Assurda evanescenza che riconduce al padre.
C'era stata una guerra irrisoria, s'era fatta
tra loro
una piccola guerra. Una guerra senza valore
con un patto particolare: ognuno amava il
focolare.
Adesso che ho visto cosa si può fare
guardando la punta del cielo, la punta del mare,
la punta del campanile, penso sia folle
capitolare,
provvedere a ciò a cui provvede il vento.
Unirono le loro perplessità in una
cittadella bella, due bei fascisti
usciti dal volontariato senza più
i simboli della foresta
: siamo usciti con te, abbiamo parlato con te,
ci siamo serviti di te.
La bambina che vedi é una bambina
perduta che non ha vissuto il suo tempo,
che tocca con mano la fanghiglia di quella gente
-
cresciuta in mezzo a loro con una fantasia
diversa,
senza nessun rapporto con gli altri esseri.
È un sogno, e non la realtà.
Macinerai queste poesie per la perduta
gente, per coloro che le poesie non le sentono
più.
Poesie da sentire e da vedere. Non sono
compiti di reminiscenza, queste poesie
che hai tratto in salvo: devi decimarle e farle
parlare
al tuo cuore. Quando il tuo cuore parlerà, ti
dirà
quel che sogna, quel che pensa.
Avevo un cane di cui ero innamorata.
Quel cane sapeva abbaiare al mio cuore.
Poi venne la guerra.
Finì il tempo del mio cane. Caddi
in una malinconia immensa.
Ma non ne attribuivo a nessuno la colpa.
Sono animati i cani che hanno un nome.
Che giocano. Che ridono. Che hanno una
personalità.
Non ne hanno una
i cani che patiscono la personalità del loro
padrone.
Soffrono l'antica scultura del paradiso, di quel
paradiso
che non tramonta.
Che rivive come rivive.
Ho un peso sul cuore
per il bambino che é morto e che morirà
La soffitta
In alto com'era non si riusciva
a guardare fuori. Una soffitta
chiusa nella luce.
In modo che un domani,
abbiate o non abbiate voglia
di dire che avete visto qualcosa,
non avrete comunque visto niente:
niente vedo, niente descrivo.
Era una stanza più o meno come questa.
Le mattonelle si somigliavano abbastanza
anche se erano di migliore foggia.
C'era un bel letto e tutto quanto occorre.
Ma le finestre spioventi e il soffitto
a travi alla maniera americana
ancora li contesto.
Come dicevo, i pavimenti erano a posto,
era la volta del cielo discutibile,
con quelle scure travi degradanti.
vero, potresti immaginartela elegante. Ma per me
non lo era. Non mi piacevano quelle travi scure,
quella volta così bassa che si sentiva sopra il
cielo.
Ci dava segni del suo arrivo -
l'arrivo del vento, della pioggia,
si sentiva distintamente....
Ci ho abitato lassù, ma ci stavo male,
me ne volevo andare.
Si diceva che la mia stanza a pianterreno fosse
brutta.
Credevano invece bella la soffitta. Bella,
perché?
Perché si sentiva l'incombenza del cielo,
l'arrivo del vento, della pioggia?
Il mare, addirittura?
Si, il mare che normalmente é in basso
lo sentivi lassù in alto.
Cosa credi ci sia di tanto bello!
La solitudine. L'altezza.
C'era, in una luce bianca, quell'altezza
immensa,
e il mare che si sentiva arrivare
di lontano con un rumore monotono di onde.
Stando ad altezza naturale a livello stradale,
come poteva sentirsi lassù in alto, il mare?
Cercheremo di chiarire questo punto.
Avvertivo distintamente il ritmo di un respiro
sorgere fino all'ultimo piano. Mi dava fastidio.
Si, che me lo dava....
Lo sentivo. L'ho sentito tante notti, il mare.
Stava in alto, più in alto delle nubi,
quel movimento monotono di onde,
quel rumore costante. Ho ascoltato
le gocce di pioggia,
la conversazione del cielo.
Qui a pianterreno non si sente.
Come andò a finire quella storia?
Non mi ricordo. Non ne ho memoria.
Non ricordo più niente.
So soltanto che non mi andava
di vivere in soffitta.
Dal pianterreno all'ultimo piano, ce ne vuole!
Avevi la sensazione di trovarti nel vuoto,
quando ascoltavi il ticchettio della pioggia in
solaio.
Avevo sistemato le mie bambole in un angolo
dove degradava una trave. Era talmente basso
che quando dovevo andare a prenderle
picchiavo sempre la fronte. Tu ci sei stata,
lassù,
sai cosa si prova ad andare dal massimo al
minimo,
dal minimo al massimo...
Poi c'era, in quella grande stanza, un tale
puzzo!
Era tutto diffuso nell'ambiente. Lo sentivi
dappertutto
e lo trovavi da nessuna parte. Però c'era.
C'erano angoli remoti e incresciosi.
Si dice sia incresciosa la mia casa a
pianterreno.
Lo ammetto. Ma per me é molto più incresciosa
quella stanza
che confina con il cielo.
Ti ci senti morire, anche se é più bella ed ha
un pavimento più solido di questo, opera
di un piastrellista ben pagato, a un altezza che
dio lo sa!
Rumori non ce n'erano, eccetto il ticchettio
della pioggia che cadeva obliquamente
sopra i vetri. Quando pioveva non mi piaceva
starci.
Di notte temevo di precipitare.
Temevo che quelle quattro mura incollate
venissero meno, che le pareti si aprissero
e tutta la struttura andasse a monte.
Se capitombolavi di sotto, e con te
capitombolava l'intera soffitta, certo
finivi dabbasso. Tutte le case danno sensazioni
d'inferno, e ad ogni altitudine. Se accade
qualcosa, accade inesorabilmente.
Qualcosa si deteriora, come é successo a me.
Ma come può accadere?
Cercheremo di chiarire anche questo.
I pavimenti d'oggi sono teneri, eccetto quelli
in soffitta.
Lassù solo le travi sono tenere. Tenere come
fuscelli.
Tenere come sono teneri i pavimenti d'oggi.
Nella mia casa a pianterreno temo crolli
il palchetto in cucina.
Mi vibra sotto i piedi. Eventualmente,
potrebbe sprofondare. Una tale disgrazia
può accadere a qualsiasi latitudine a livello
del mare.
Che senso ha in alto il cielo
se sotto il pavimento cede?
Sotto i piedi il pavimento perde consistenza
perché in alto il cielo crea vibrazioni
che lasciano a desiderare. In questa casa
a pianterreno non si ha alcuna
sensazione di turbine. Ma in fondo manca
anche qui qualcosa.
La solitudine. L'altezza.
Non mi porterò mai più su quella traiettoria.
La mia coscienza si perde
in un mondo dell'aldilà dove ho a che fare
con gli spiriti dell'aria e dell'acqua
pur non essendo in alcun modo religiosa.
Se mi rivolgo a Dio, e poi questo Dio io non lo
adoro,
mi viene a mancare sotto la struttura. Parlo
della disposizione delle cose senza chiarire
niente.
Ad esempio, la mia buona reputazione
mi é stata defalcata da un' ignobile, e non mi
va, la storia.
Chi lo decide se sono o meno religiosa?
Se vado in chiesa, mi si dice che lo sono.
Non ci vado perché temo sprofondi su se stessa,
che sprofondi sulle mie esigenze, comunicando
a pianterreno molti dubbi. Dubbi vibranti
tra il cielo e la terra. È proprio come muoversi
camminando con i piedi nella merda.
Il tombino
meglio non mettere un piede in fallo
meglio non farsi venire le vertigini
fui molto capace
di tirare nuovamente a me
il fragile
l'avevo estirpato dalla fogna
questo piede che si è torto
nel vuoto
mi ero fermata
su un bel cocuzzolo
che aveva al centro un tombino
ne restai sorpresa
(logico, perché ero lucida,
ero sveglia dalla parte destra)
quel piede tratto a me
riuscii a tirarlo a me
da me (era bagnato fradicio ma
riuscii a trarlo in salvo)
era bagnato si
ma riuscii a cavarlo fuori
sentii un dolore inimmaginabile
fu un qualcosa di terribile
lo stesso dolore che sentisti tu
quella volta che mettesti un piede
in fallo —
allora
fu diverso — il tuo
era davvero un tombino — il mio
una specie di esalazione
mascherata da tombino pensai che si trattasse
dell'ultimo respiro
pensai che fosse meglio scendere da quel
cocuzzolo
(poi misi in piede in fallo) che aveva al centro
un tombino
mi si chiuse intorno — ancora un minuto
e finivo al cimitero
uno strano cocuzzolo
quello che si trasforma in un tombino
non appena metti il piede in fallo!
a un tratto sprofondò
- il mio piede
quindi rimasi con una parte sveglia
l'altra immersa fino al ginocchio
nella fogna
stava per inghiottirmi
cercai di tirarmi su
feci uno sforzo immenso
per tirare a me il piede
che avevo messo
in fallo
ma dopo un altro attimo
quel vuoto
così sproporzionato
che ne ebbi paura — dopo di allora
ho sempre temuto lo scompenso
che mi si stringe intorno
che mi si chiude dietro
- ne ho avuto paura e non ho più viaggiato
per venire da te.
L'attraente
È passato lo spirito che mi tortura
la notte delle dimostrazioni
si è verificato l'evento
della regola di un tempo
fuori dal comune
una premessa debole
nel lento svelarsi di routine
un debole sangue in me
che non aveva consistenza
che non aveva niente
eccetto la pazzia
(meno due notti e un giorno
trascorsi senza crisi).
È passata.
nutrivo la speranza
che non avesse fine
che non fosse un atto sporadico
-la chiamo così venuta com'è
con gli spiriti incapaci
di fare i regnanti
-medito una salda economia
perché non ho più niente
-quasi bianco il mio sangue
un parametro a cui non sapevo rispondere.
La discordia
Com'è gentile questa bambina
che si tuffa
fuori dall'abitato
(l'abitato presenta dei
disagi)
fuori dall'abitato che cosa può ottenere?
Potrebbero andare
d'accordo,
giocare a nascondino, a Tutti i Santi.
(È lei che mette
discordia
nei pomi del levante).
Vi propongo: tu
rimani in un tronco cavo
per conto tuo,
lei in una stradina buia per conto suo,
e andrete d'accordo.
Pacificando.
Se invece progettate un accordo
solo per
potere di nuovo litigare,
meglio che rimaniate in disaccordo,
essendo nemici. Meglio
mantenere la discordia e rimanere
soli come anime.
La tessitura
Tesseva
il resoconto delle sue impotenze
(sono ancora nello stato depressivo
dove tramonto) Non so
se ce l'ha con me — con se stessa
o con il virus
da combattere in silenzio -
Io ci ho provato
in un luogo lontano dal suo cuore
tentando di ingiallire
gli scampoli di lino
nella capitale del mio nome
I ricordi di famiglia
(non li posso negare)
della fame
spregiudicata e avida
Mi flagellai le gambe
dinanzi alla chiesa
immaginando una morsa
-il giorno dopo fui dimessa
Non tutte le cose che intrecciai
erano fibre
Molte erano bugie
che mi andava di dire.
FINE
BIBLIOGRAFIA
ESSENZIALE
Dello
stesso autore
ERMINIA PASSANNANTI
- Noi Altri (in I 5 Poeti del Premio Laura Nobile, Vanni Scheiwiller, Milano 1995).
- Macchina (Ripostes, Salerno/Roma, 2000).
- Mistici (Ripostes, 2003).
- La realtà (Ripostes, 2004).
- Il Roveto (Troubador, 2005).
- Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie (Troubador, 2006).
- Noi Altri (in I 5 Poeti del Premio Laura Nobile, Vanni Scheiwiller, Milano 1995).
- Macchina (Ripostes, Salerno/Roma, 2000).
- Mistici (Ripostes, 2003).
- La realtà (Ripostes, 2004).
- Il Roveto (Troubador, 2005).
- Il Torsolo del Ventre ed altre Fandonie (Troubador, 2006).
Premi
1994: Primo Premio, Concorso Nazionale di Poesia David Maria Turoldo, Sondrio, Italia
1995: Primo Premio, Concorso Nazionale di Poesia Laura Nobile, Siena, Italia.
1991: Primo premio ex-equo, Concorso Nazionale di Poesia Laura Nobile, Siena. Italia.
Sulla
poesia di Erminia Passannanti
Monografie
Laura
Incalcaterra McLoughlin, La macchina dell’estasi (Joker, 2007).
In Iugoslavia con i
piedi a terra.
Seconda Edizione.
Finito di stampare nel
2011
per conto della casa
editrice
BRINDIN PRESS,
Salisbury, UK.