Commenti: Francesco Muzzioli



FRANCESCO MUZZIOLI

 

Per una poesia del corpo: un commento a Il Torsolo del Ventre e altre Fandonie 

 di Erminia Passannanti (Troubador, UK, 2006)




Contro la tendenza dominante della poesia dell’“anima”, che continua ad ammorbare i nostri climi letterari con i suoi irrespirabili incensi, e a monopolizzare le residue presenze della poesia nella cultura diffusa e nell’immaginario collettivo (si pensi alle caricature cinematografiche di banalissimi personaggi-poeti, come pure ai rari ma purtroppo significativi, riconoscimenti ufficiali), e si conserva saldamente radicata nel senso comune anche giovanile, tanto da apparire a volte – in una di quelle “false alternative” che ci circondano – quasi che fosse lei, addirittura, l’antitesi al capitalismo (come se il guaio del capitalismo fosse di aver perso l’anima e non di essersi “smaterializzato”, proprio, nei cieli del “puro spirito”), mentre si riduce a fungere da pallido sintomo sublimatorio; contro questa tendenza, dunque, credo che si debba prendere radicalmente posizione.
Il comico involontario a cui vanno incontro i poeti dell’“anima”, evidentemente, non è sufficiente. «Pensate a X, o a Z! Come sarà buffo!», diceva già ai suoi tempi Baudelaire di quei poeti che raccogliessero l’aureola e se la rimettessero in capo, dopo che la modernità l’aveva fatta rotolare inopinatamente nel fango. Ma niente da fare: il “restauro dell’aureola”, con il recupero connesso dell’atmosfera sacrale dell’aura (teste Benjamin) non ha ceduto di un centimetro nemmeno con l’incalzare della modernità più spinta e potremmo comodamente sostituire gli X e gli Z di Baudelaire con nomi a noi contemporanei, ora ingenuamente sprovveduti, ora invece sottilmente muniti con misticismi di nuovo conio (magari heideggeriano o derridiano, perfino). Che fare? Contro la poesia come lingua dell’anima, ben venga allora l’esercizio del testo come poesia del corpo! Ciò significa riflettere sul corpo della parola.
 Nelle avanguardie del Novecento, il corpo della parola veniva identificato nella materia del significante. Si trattava, per i futuristi, per i dadaisti e poi per i verbovisivi e i “telquelliani”, di assaporare il suono, di gustarne l’impasto, la grana, fino a separarne le singole componenti oppure fino a creare una neolingua, passandosene del legame “ragionevole” con il senso. Questa fungibilità della parola nel suo lato “vocale” rappresenta implicitamente l’utopia di una libertà verbale “a pronta presa”, che è possibile acquisire subito, qui-e-ora, semplicemente sciogliendo il segno dalla sua convenzione significativa. Ma il mondo post-novecentesco, ormai, ha ben presente la difficoltà di ogni libertà immediatamente disponibile (la libertà “a pronta presa” è, nel capitalismo “drogato” in cui viviamo, quella del liberismo, del potere che si fa le leggi da solo, ecc.: l’anarchia berlusconica); la libertà è invece tutta da conquistare, la libertà è nel conquistarla. Allo stesso modo, la corporeità non è data (la corporeità data è il corpo-oggetto della profilassi medica e delle cure estetiche, oppure dell’eros prefabbricato dell’immaginario di massa), ma va strappata alla “sussunzione reale” della merce. Nel caso del corpo della parola, ciò significa che dobbiamo tornare a cercarlo nei nodi e nelle intercapedini dei codici, dei generi, degli usi e dei contesti, in una parola dei sensi del linguaggio.
Queste riflessioni mi sono state suggerite dalla lettura del Il torsolo del ventre di Erminia Passannanti, la raccolta poetica che qui si presenta. In questo ultimo testo, ma un po’ in tutta la linea di ricerca di questa autrice, la centralità del corpo si presenta e si articola su diversi livelli che proverò a distinguere brevemente. In primo luogo, la corporeità si manifesta nella propensione al prosastico. Il prosastico vuol dire corpo tematizzato e incremento percentuale della terminologia relativa al corporale. Si può partire dal «ventre» che dà il titolo alla raccolta e via via inventariare; e si vedrà che la tendenza è massiccia. E però qui prosastico vuol dire di più: vuol dire anche, precisamente, uso della prosa. È vero che la prosa è un semplice strumento, è un mezzo e non un genere, e che essa è perfettamente abilitata ad adempiere pure, al buon bisogno, ai compiti della lirica.
Tuttavia, in questa recente raccolta della Passannanti, la prosa sembra affermarsi a discapito, non solo della forma più tradizionale del verso, ma anche a totale detrimento della liricità e della sua spinta verso l’alto e il sublime. Curiosamente – e a differenza da altri precedenti usi in poesia, come, ad esempio, nel cosiddetto poema in prosa – l’impiego della prosa non è accompagnato dalla liricizzazione e dalla ricerca di clausole metriche, ma fa entrare nel testo il tono di un linguaggio pseudo-argomentante, di tipo trattato, che mette in scena uno sragionare sproloquiante, con forte tendenza alla parodia. Il ritmo, qui, non è la musicalità facile delle sillabe; è lo scricchiolio di una macchina che gira a vuoto, come già annunciava l’opera prima, del 2000, Macchina.
In secondo luogo, vorrei sottolineare l’impiego della lingua “storica”. Questo impiego è esattamente connesso a quel rimuginare prosastico della “trattazione maltrattante” e della tendenza alla parodia. Ecco allora che il linguaggio chiamato in essere è una parola tinta di passato, che riemerge dalla storia con la connotazione letteraria di un prestigio perduto. Non c’è, si badi, nessuna pietas conservativa, qui, né alcun valore antiquario. Il linguaggio della tradizione è semplicemente un relitto tra gli altri, un fantasma che viene agitato polemicamente di fronte all’impoverimento della “lingua di plastica” delle comunicazioni di massa. A cospetto del mito della trasmissione immediata di significati, che oggi presiede alle attività dell’industria culturale, si pone e si ammassa, qui, in una sorta di freudiano “ritorno del superato”, una lingua letteraria che rischia ormai di apparire “ostrogota”, incomprensibile ai più.
Da questo punto di vista, lo strato “alto” della lingua aulica si congiunge allo strato “basso” del dialetto, in quanto entrambi estremi ormai degradati, espunti e respinti ai margini dalla medietà dei media. In un tono “popolaresco” tutto reinventato (d’altra parte, oggi, il “popolare” ha cambiato di segno ed è, precisamente, la cultura dominante e la lingua normalizzata e globalizzata), in un impasto grottesco e straniato, la Passannanti mette sulla sua scena poetica tutta una serie di personaggi-maschere, che diventano protagonisti di un insensato brulicare di azioni-e-reazioni, di un “teatrino” in cui è possibile riconoscere la mimesi distorta della nostra politica-spettacolo (e talvolta, qualche personaggio lo si riconosce proprio, senza ombra di dubbio, dietro le teste di legno). Gente come il «Deus Ex Machina», il «Merda», oppure l’«Hommo de Sale» o lo «Sciaguratiello», animano contese e offese sul palcoscenico del «roboante pianetucolo». Non era sufficiente – obietterà qualcuno – “dire le cose” e puntare direttamente il dito sulle malefatte dei mariuoli al potere o sulle nefandezze dalla guerra preventiva? Perché questo passaggio attraverso l’attrezzatura della finzione? Ma certamente – rispondo – perché gli strumenti della testimonianza o della denuncia sono facili a svilirsi in merce da informazione, a farsi consumo patetico del vittimismo, e allora l’impegno civile deve approntarsi una forma deformante per stigmatizzare l’atteggiamento, il gioco delle parti, la modalità burattinesca dei fantocci che infestano il mondo.
Infine, in terzo luogo, il corpo non può emergere, nel linguaggio della poesia, altro che come enigma e come conflitto. Il corpo sfugge ai saperi costituiti (è la «cosa sconosciuta»); si pone al punto di rottura dell’ordine (è scritto che «Il Torsolo del Ventre s’identifica con il Tafferuglio Massimo»); si situa contraddittoriamente al «centro di un Travaglio» (triangolabile secondo le coordinate della «Sopravvivenza», della «Resistenza» e della «Dissidenza»). Gli è che, da un lato, il corpo è pur sempre in intreccio con la psiche (è Psychosoma), innervazione di pulsioni e di investimenti; dall’altro lato, è corpo-mondo, ingrediente di cucina nel calderone globale. La sorte del corpo nella globalizzazione trionfante (o capitalismo “drogato” che dir si voglia) dà da pensare. Il corpo è esaltato, ma solo dentro i parametri dell’immagine patinata. Altrimenti è in esubero. Che il corpo sia raggiungibile, oggi, solo cercando tra i margini e i resti (come «Rimasuglio di Vita») balza agli occhi dalle pagine poetiche della Passannanti. In esse il corpo, per sfuggire alla fantasmagoria che lo riveste, si manifesta strappando la seconda pelle del linguaggio; cioè emerge come non-senso, sregolatezza, follia, in rivolta contro l’addomesticamento culturale che permea le false libertà vigenti.
Questi diversi livelli di discorso si riflettono bene nelle ambivalenze del titolo, che mi ha colpito fin dall’inizio: Il torsolo del ventre. Il «torsolo» rimanda a qualcosa di nucleare e basico, ma è nello stesso tempo un residuo, ciò che si butta via dopo avere mangiato il frutto. Il «ventre», a sua volta, è il segnale dell’ingordigia e la sua gonfiezza, è soprattutto un luogo centrale della comicità “classica” (e allora si connetterebbe al torsolo come “ventre bitorzoluto”); ma significa anche, ovviamente, la parte del corpo specificamente femminile, il luogo della produzione-riproduzione della vita.
La rivendicazione del femminile attraversa tutto il libro e, in alcuni punti, si enuncia esplicitamente (si vedano, ad esempio, Femmina, svolto in tono di preghiera; e l’«insperata specie femminile», in Da vecchia). Eppure, il lato comico-parodistico, con le sue intemperanze linguistiche e il suo mescolamento di stili e di voci (tutto il coté bachtiniano del libro), fa sì che ogni protesta sia sempre lì lì per rovesciarsi in finzione esibita, nell’avviso a non prendere troppo sul serio un testo che è «fandonia», «baggianata» e quant’altro, secondo i segnali di palese autoironia.
La “panza” si fa “panzana”, ovverosia riscrittura, scoronamento, abbassamento, critica della letterarietà stessa. Sicché, a differenza della vulgata, che vuole la scrittura al femminile minimalisticamente attesa a una corporeità che è quella del quotidiano, qui la faccenda si rovescia. La concretezza non sta nel vissuto, ma nel delirio. Mentre il vissuto si attiene ai fantasmi ricevuti e alla fine se ne accontenta senza forzarne l’assetto profondo, anzi rafforzando con la narrazione l’“io sono” più codificato, il delirio tenta di toccare il “torsolo” del corpo negato dall’ordine delle cose e dei discorsi. Insomma se dobbiamo, come dobbiamo, cercare il corpo, i testi poetici di questo libro ci insegnano a prendere la strada più lunga; anzi, a passare dalla parte opposta. Precisamente: la parte opposta al senso comune.

Roma, 22 gennaio 2006
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