Saggio sulla poesia di Fortini
Erminia
Passannanti: "Teorizzazione
della contraddizione nell’opera di Franco Fortini"
![]() |
Franco Fortini nel suo studio di fronte alla Olivetti. |
Negli
ambienti intellettuali del secondo dopoguerra, gli attacchi che
Franco Fortini sferrava al sistema letterario e alle sue élites
erano
ben conosciuti e temuti, vuoi che li porgesse nelle chiuse forme
della poesia, vuoi per via discorsiva nei suoi saggi. La tendenza
allo scontro ideologico spesso superò l’inclinazione pur forte di
Fortini al dialogo, tanto che, in svariate occasioni, il confronto
con compagni e colleghi si tradusse in aperte polemiche che lo
amareggiavano non poco, come accadde nel caso delle note controversie
ideologiche con scrittori dello stesso fronte marxista, come Pier
Paolo Pasolini e Italo Calvino, o di tendenze diverse, come il
liberalsocialista, Norberto Bobbio, le cui idee tuttavia stimolarono
profondamente le sue riflessioni sui rapporti tra politica e cultura.
Come si rileva a partire da Dieci
inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista (1957),
Verifica
dei poteri (1965)
e Questioni
di frontiera (1977),
fino a Extrema
ratio.
Note
per un buon uso delle rovine (1990)
– Fortini scriveva, dunque, i suoi saggi con costante attenzione
alla tensione e qualità dello scontro ideologico e tramite
coraggiose analisi degli errori della cultura di sinistra,
profetizzava la crisi che avrebbe investito il marxismo militante. Ne
offre evidenza la poesia pubblicata nel 1966 ne L’ospite
ingrato,
«Diario linguistico », ripubblicata nel 1974 in Poesie
Scelte,
in cui, rivolgendosi a Pasolini, Fortini dichiarava:
Non
imiterò che me stesso, Pasolini. Più morta di un inno sacro La
sublime lingua borghese è la mia lingua. Non conoscerò che me
stesso Ma tutti in me stesso. La mia prigione Vede più della tua
libertà. (F. Fortini, Poesie
scelte,
1974, p. 116)
La
verità stessa della poesia, di cui nella seconda metà del
Novecento fu uno dei massimi esponenti, è una dimensione complessa
e conflittuale che in sé assimila armonia e caos, volontà di
conciliazione e lotta. In poesia, ragione e sentimento sono, per
Fortini, forze essenziali ed interagenti. Estimatore di Leopardi,
Fortini affida alla contraddizione la sua stessa poesia, cogliendo il
senso e la necessità di ogni umano conflitto. Utile a comprendere
il valore di ciò che è problematico e disarmonico negli scritti
di Fortini è l’aforisma di Blaise Pascal: «Né la
contraddizione è indice di falsità, né la coerenza è segno di
verità.» Se l’ « agire lirico», come «onda» cupa e potente,
consolida la propria originalità nel trovare un suo assetto formale
negli inevitabili legami con la lingua e la letteratura da cui deriva
i suoi strumenti, nel trasgredirne sottilmente i canoni, esso procede
anche per scontri e opposizioni, come suggerisce la poesia «Metrica
e biografia» (Poesia
e errore,
1959): «nelle grotte più chiuse dove cupa / molto contro le mura,
onda, tu tuoni.»
Dopo
la militanza negli anni Cinquanta nelle pagine di Ragionamenti,
Fortini sintetizza il proprio pensiero d’intellettuale impegnato e
poeta nel volume di scritti critici Verifica
dei poteri (1965)
– uscito in contemporanea con il libro di Alberto Asor Rosa,
Scrittori
e popolo –
dove
torreggia il saggio Mandato
degli scrittori e fine dell’antifascismo,
in cui tra l’altro discute dell’opera di Brecht. Impegnato nei
dibattiti tra gli intellettuali della nuova sinistra su Quaderni
piacentini,
negli anni Sessanta Fortini inizia a sostenere una idea di dialettica
non solo come conflitto permanente di opposti, capace di conferire
senso alla storia nel segno della contraddizione conciliata;
discostandosi dal materialismo dialettico di matrice rigorosamente
marxista, inizia a sostenere che tali forze oppositive non solo
liquidabili con la sola lotta di classe, quanto piuttosto mediante le
trasformazioni determinate dalla rivoluzione culturale a cui pensava
Mao Tze Tung, come si evince dal brano «Per la morte di un maestro»,
ne L’Ospite
ingrato:
Nelle
aule della scuola dove Mao aveva studiato e insegnato, in una città
della Cina, abbiamo visto insegnare ai figli dei suoi nipoti. Questa
distanza fa parte della figura di Mao. La coscienza della distanza ha
sempre accompagnato il suo genio come vibrazione e rifrazione che
impediva di vedere in lui solamente il politico, il capo di un
popolo; che dava ad ogni sua azione o parola più di un senso e più
di una durata. Era lui a prendere distanza da noi e dalle
circostanze, ad alterare i contorni delle azioni con l’unione dei
linguaggi antichi e modernissimi, di favola popolare, di saggistica
intellettuale, di dialettica delicata o violenta, confondendo i
secoli e le culture, le categorie, i morti e i vivi. (F. Fortini,
Ospite
Ingrato,
n.117, 1966, p. 152)
In
sede teorica, in articoli e saggi, come nei suoi versi, Fortini
chiedeva alla poesia di rendere giustizia al suo fine ultimo, ovvero
quello di conferire senso e ragione ai conflitti e alle
contraddizioni del presente industrializzato senza trascurare un
dialogo costruttivo con i valori della tradizione: «A loro (i versi)
chiedo aiuto perché siano visibili / contraddizioni e identità
fra noi. / Se un senso esiste, è questo.» (Fortini, L’ospite
ingrato. Testi e note per versi ironici,
1966) La vicenda di Fortini, come poeta ed intellettuale partecipe di
urgenti realtà storiche pre e postbelliche, che imponevano
all’artista un’elevata tensione etica, fu complicata dunque dalla
quasi totale fiducia che egli ripose nell’efficacia della
contraddizione. Questa tendenza emerge infratestualmente in modo
inequivocabile non solo in Verifica
dei poteri (1965),
L’ospite
ingrato (1966),
Questioni
di Frontiera (1977),
ma in opere più mature, come ad esempio Insistenze
(l985).
Nel saggio «Contro tiepidi spade», Gian Carlo Ferretti scrive:
Ma
si tratta di una contraddizione feconda; non soltanto perché
Fortini la vive pur sempre con una consapevole tensione di
superamento, e di un superamento che dei due momenti contrastanti, la
letteratura e l’altro, si arricchisca intimamente (significativa la
sua ricorrente, appassionata e lucida ricerca di un nesso tra tempi
brevi e tempi lunghi, funzione sociale dell’intellettuale e
«disegno strategico» del poeta); ma perché, nel sostenere la
«insostituibilità del discorso poetico e letterario» nel quadro
della trasformazione rivoluzionaria della società, egli assume al
tempo stesso quella contraddizione e quella tensione di superamento
come momenti attivi all’interno stesso della sua poesia. Questo
muro ne
fornisce del resto prove di grande significato, dalle più implicite
e sottili alle più trasparenti e quasi programmatiche.[1]
Se
lo scrivere versi per Fortini si traduceva in poesia della realtà,
questa rimaneva una zona inconciliata, a rendere problematico il
contatto con le cose del mondo, segnando una difficoltà a cui il
poeta, che si ammette senza riserve come uomo tra gli uomini,
rivoluzionario, o eretico, immerso nella realtà capitalistica
reificata, non può fare fronte nemmeno con l’impegno civile, che
pure egli profuse sia come partigiano sia come redattore di riviste
quali «Politecnico» e «Officina».Nell’introduzione
all’intervista Il
dolore della Verità, Maurizio Maggiani incontra Franco Fortini,
Erminio Risso nota: Volendo fotografare questo modo di operare, si
potrebbe ricorrere all’immagine del dialogo, dove a una voce che
tenta una interpretazione esaustiva del mondo ne segue immediatamente
un’altra che propone una serie infinita di obiezioni, pronte a
smontare quello che pareva un momento di equilibrio, sebbene
instabile. (E. Risso, Il
dolore della Verità,
2000, p.15) La poesia del conflitto, pregna di umori e veleni (come
emerge da «L’animale» è verità necessaria, che segna il
rifiuto dell’arte a porsi al servizio dei potenti.
Nell’autoprefazione al volume antologico di poesie di Fortini nella
traduzione inglese di Paul Lawton, Summer
is not All,
l’autore notava:
Quando
i critici sostengono che la mia poesia – persino quando si rivolge
alle rose o parli di esse – sia di natura politica, in una certa
misura sono in errore, e questa certa misura è importante. I miei
versi hanno sempre l’intenzione – o l’illusione – di indicare
delle coordinate (perfino quando siano nascoste in un aggettivo o in
una virgola) e un punto specifico nel tempo e nello spazio, e lo
fanno non unicamente per l’individuo ricco d’immaginazione, che
parla in prima persona nei versi. Ho vissuto la prima metà della
mia vita coltivando la convinzione che la poesia potesse opporsi, in
qualche misura, alla «trionfante organizzazione dei bastardi. » Non
ci credo più, oggi. [...] Nella penombra, cambia il senso delle
affermazioni. Solamente la creazione di questa distanza da cui
osservare le realtà e di un’ambiguità deliberata rende capaci
di parlare della storia contemporanea e dei suoi punti di riferimento
(F. Fortini, Summer
is not All,
1992, p. 12).
La
contraddizione in campo lirico è, pertanto, sentimento del reale,
proposto in «forma etica » contro ogni falsa metafisica, come
recita la poesia del 1958, «Il comunismo»:
Vivo, ho vissuto
abbastanza per vedere
da
scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che
ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate?
Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta in tempo e aria,
cuori più attenti a educare.
La
funzione poetica che Fortini teorizza nutre, dunque, la vocazione a
rilevare le contraddizioni di ciò che è dato per scontato, per
ricostituire le realtà del presente alla luce della critica, poesia
che si concepisce come forza militante. Tale funzione si attua nel
simultaneo cedere e resistere alla seduzione della forma tramite la
figura della contraddizione irrisolta, creatrice di antinomie. Nella
prefazione a L’ospite
ingrato,
Fortini scriveva:
Altro
ancora ero venuto scrivendo, quasi con la mano sinistra: poesie che
soprattutto stavano a provare momenti di fastidio per una qualche mia
identità, metrica, stilistica; versi pseudonimi; prove di possibili
traduzioni immaginarie; smentite alla coerenza manieristica, che è
la più facile. [...] Ma sembra che ad una coerenza qualsiasi o alla
sua intenzione sia impossibile sfuggire. Come si fa con le carte non
col vino, «taglio» allora in questo libretto un certo numero di
quei versi con quanto può parere più lontano da loro, (vale a
dire) note di raziocinio o di ideologia, dispute su passioni colpite
da morte apparente, fogli che pretenderebbero sollevarsi dal confuso
diario immaginario che chiunque redige: per tendere dissonanze,
spezzare ogni accento melodico, costringere a un doppio gusto, a un
dissapore. (F. Fortini, L'ospite
ingrato, 1966,
pp. 9-10)
Fortini ha parlato dell’esistenza all’interno del marxismo critico di due poli opposti, di cui quello militante normativo, che riproduce le dottrine ufficiali del partito, ovvero dello Stato, e giudica l’artista formalista un pericoloso antagonista, è riscontrabile nelle tesi di Lukács, il quale sollecitava l’arte all’impegno verso il realismo sociale. L’artista borghese, da questa prospettiva, non fa che riprodurre la sottomissione della sovrastruttura che lo Stato rappresenta agli interessi economici delle classi dominanti: ne consegue che l’artista impegnato deve condurre in primis la sua lotta contro l’arte borghese. Il secondo tipo è il marxismo francofortese delle varie tesi sull’arte di Adorno, Horkheimer, Benjamin, e Marcuse, che tendono a giustificare i fenomeni artistici da una prospettiva che procede dialetticamente per via negativa: «La contraddizione in questi pensatori non è più scandalosa, ma istituzionale.» (F. Fortini, Verifica dei Poteri,1974, p. 225).
L’incidenza
del tema della contraddizione nell’opera di Fortini acquista
centralità nella raccolta Poesia
e errore (1969),
fondata sulla natura sostanzialmente instabile del reale, e sul
rapporto di questa dimensione apparentemente ultima, ma
intrinsecamente instabile ed ingannevole, con il soggetto, la
politica, il mondo dell’arte.
Per Fortini, la funzione dell’agire lirico è particolarmente rivelatrice di tale inganno, ed, in questa sua funzione, la poesia assume un ruolo trasgressivo, muovendosi in modo inversamente proporzionale al suo assetto formale. La pretesa d’assoluto della parola fraintesa e conciliata a forza. La poesia, ogni poesia,lirica, di qualsiasi epoca, si disgrega proprio nel suo darsi, come fa, come evento estemporaneo, circostanziale, collettivo o personale. Il concetto viene ripreso con insistenza da Foglio di Via: «Come l’azione politica, la poesia è il risultato di operazioni combinatorie compiute su un definito numero di dati e di termini. [...] Le verità vi si fanno a partire dagli errori.» (Fortini, Foglio di via, 1946, p. 9) Paradossalmente, continua ad affermare nel tempo Fortini, è l’errore che garantisce credibilità a ciò che chiamiamo verità: «Nessun errore, si sa, è più grave di quelli che nascono da una verità, ma guai a chi, per evitare gli errori, rinviasse l’apparizione della verità.» (Fortini, Extrema Ratio, 1990, p. 94) Anche il succedersi di tradizioni nell’ambito umano della cultura non rappresenta altro che una serie di malintesi della sfera logica, che avrebbero luogo nell’esercizio del linguaggio.
Per Fortini, la funzione dell’agire lirico è particolarmente rivelatrice di tale inganno, ed, in questa sua funzione, la poesia assume un ruolo trasgressivo, muovendosi in modo inversamente proporzionale al suo assetto formale. La pretesa d’assoluto della parola fraintesa e conciliata a forza. La poesia, ogni poesia,lirica, di qualsiasi epoca, si disgrega proprio nel suo darsi, come fa, come evento estemporaneo, circostanziale, collettivo o personale. Il concetto viene ripreso con insistenza da Foglio di Via: «Come l’azione politica, la poesia è il risultato di operazioni combinatorie compiute su un definito numero di dati e di termini. [...] Le verità vi si fanno a partire dagli errori.» (Fortini, Foglio di via, 1946, p. 9) Paradossalmente, continua ad affermare nel tempo Fortini, è l’errore che garantisce credibilità a ciò che chiamiamo verità: «Nessun errore, si sa, è più grave di quelli che nascono da una verità, ma guai a chi, per evitare gli errori, rinviasse l’apparizione della verità.» (Fortini, Extrema Ratio, 1990, p. 94) Anche il succedersi di tradizioni nell’ambito umano della cultura non rappresenta altro che una serie di malintesi della sfera logica, che avrebbero luogo nell’esercizio del linguaggio.
La poesia romantica, con la sua fede nella forza del sentimento e del dominio dell’irrazionale, ha nutrito la speranza di pervenire al senso del mondo, armonizzando la sfera ideale con quella dell’errore insito nelle cose umane. Ciò non costituisce per Fortini il vero limite di questa tradizione, in quanto si tratta di un difetto teorico indotto dalla filosofia idealista che ha speculato sulla funzione conciliativa dell’arte. La poesia romantica per Fortini ha valore, al contrario, appunto perché, in ogni sua espressione, è indizio dell’autoinganno, insito nella forzata volontà della ragione di una conciliazione degli opposti: «Credo alla verità di alcune mie poesie perché ogni loro verso porta il segno della contraddizione.» Mentre mantiene stretti legami di deferenza con la lingua letteraria e la tradizione, da cui attinge i suoi strumenti, il poeta lirico che sappia progredire oltre la mera imitazione, deve al contrario contravviene ai canoni, in base agli ostacoli in cui si imbatte, come recita «Metrica e biografia», in Poesia e errore, del 1959, «nelle grotte più chiuse dove cupa / molto contro le mura, onda, tu tuoni ». Prendendo spunto dalla lirica leopardiana dei Canti, interprete d’una dissociazione tragica fra poesia e verità, Fortini sottolineava come la poesia conceda a chi se ne faccia autore – attraverso la forma che le è propria – la consumazione estetica di un’esperienza falsamente «totalizzante», che in passato era stata privilegio esclusivo degli spazi sacri, la quale non può non tradire la sua natura caduca, ingannevole. Dunque, metteva in guardia contro il cedere alla gratificazione della forma che ogni scrittura, nel suo consolidarsi, sottende.
Fortini,
come poeta e intellettuale, cosciente della natura intrinsecamente
dialettica e sfuggente del reale, non ricercherà la gratificazione
del linguaggio lirico, né s’ingannerà sull’esistenza di una
lingua originaria, coincidente con il pensiero emotivo, ma sistemerà
nella contraddizione e nella lotta il senso della sua ricerca.
(Luperini, La
lotta mentale.
Per
un profilo di Franco Fortini.
(Luperini, 1986) Sul fronte dell’impegno politico, Fortini ha,
infatti, indirizzato costantemente verso l’esterno questa tensione
etica interiore, ovvero crisi perenne di coscienza.
Sebbene
Fortini ebbe posizioni non conciliabili con le proposte della
neoavanguardia, costituitesi sulla polemica anti-idealistica e
anti-romantica de La
critica del gusto,
di Galvano della Volpe (1971), pur tenendosi al margine del
romanticismo leopardiano, ne stimava il suo essere traccia della
lesione costituitasi tra i due modi fondamentali di essere della
poesia: la dimensione lacerata del mondo delle relazioni pubbliche, e
quella inconciliata della sfera estetica. Fortini aveva difatti a
cuore l’eredità del pensiero tragico di Schiller.[2] Il tragico
dell’estetica schilleriana, che emerge dal conflitto tra eticità,
pragmatismo e spiritualità, rappresentò infatti il vero tramite
per la teorizzazione della contraddizione. Tuttavia, diversamente dai
romantici, che nella dimensione tragica vagheggiavano la possibilità
del superamento della frattura tra estetica ed etica, Fortini non
cercava di conciliarne gli opposti, bensì – e in modo forse più
kantiano che nello stesso Schiller – di drammatizzarne la
separazione.
Il
contrasto tra l’esigenza di libertà espressiva del poeta e la
legge morale dell’intellettuale impegnato riassume il tema
principale del poemetto del 1962, La
poesia delle rose[3],
dove Fortini nega che la poesia possa mai pervenire ad una
conciliazione di sentimento e ragione, pur tendendovi tramite la
forma. Come l’autore suggerisce ne La
poesia delle rose,
la più efficace destabilizzazione che il poeta possa fare dello
status
quo non
si pratica con la forzata conciliazione degli opposti, che avviene
spontaneamente solo in certi fenomeni della natura, ma spingendo fino
ad un limite estremo sul piano formale la loro complessa e spontanea
interazione. Nella ricerca di un’impossibile conciliata verità,
il poeta precede, infatti, per indizi, condannato com’è ad
imbattersi nell’errore. In «Canzone» una poesia del 1959, inclusa
in Poesie
ed errore,
l’autore anticipava il tema della perdita del senno come cedimento
della ragione sotto il peso dell’angoscia e delle contraddizioni
(«Uomini usciti di pianto e di ragione»), laddove pianto e
fallimento emancipano l’artista, secondo formule tassiane,
goethiane o leopardiane. Fortini ebbe a notare: «Non sarebbe
immaginabile una sinfonia che non smettesse mai. All’interno di
qualunque lirica, la divisione in parti è già questo...»
(Fortini, L'ospite
ingrato, p.
162) La forma poetica, nel suo evolvere, trarrebbe vantaggio,
paradossalmente, dalla rottura o divisione delle sue singole parti,
e, pur nell’unità, dall’«aspettativa della fine», che le
aggiunge sostanza, direzione e meta. Ne consegue che, sul piano
logico, ogni premonizione di morte sia aspirazione contraddittoria,
presagio di declino, ma anche garanzia di vita, universalità e
compiutezza, come Leopardi dimostra ne «L’infinito», (Fortini,
Dei
confini della poesia,
1986). Tale polarità, capace di determinare contraddizioni acute
come una spina nel fianco, Fortini spiega nel saggio «Il passaggio
della gioia», rafforzerebbe la funzione tragica del linguaggio
poetico:
(La
poesia) assolve l’uffizio di essere un assillo ad un adempimento
reale, interumano, della propria immagine formale e ad un tempo luogo
di consumazione anticipata (quindi mistificata come quella di una
droga o di un’ostia) d’una pienezza fulminea e immaginaria. (F.
Fortini, Verifica
dei poteri,
1965, p. 254)
Il
poeta, ammonisce Fortini, deve, tuttavia, agire una resistenza contro
la gratificazione della forma. Egli stesso in concreto mostra il modo
in cui procedere in direzione lukacsiana, deducendo sia in poesia sia
in saggistica l’universale dal particolare, le verità fulminanti
dai conflitti, i giudizi estetici dalla sintesi dei dati rilevati
dalla prospettiva storica, come sottolinea Luperini nella sua
prefazione al volumetto postumo, Breve
Secondo Novecento (1996
). Fortini non ricerca, né apprezza, la spontaneità o il
vitalismo del linguaggio lirico romantico tout
court,
né s’inganna sulla poesia quale lingua di eletti, ma, come
Benjamin, sostiene la forza lirica della realtà nei suoi conflitti
e paradossi.[4] Ne La
poesia delle rose,
Fortini ribadisce l’esistenza di verità il cui equilibrio può
essere inteso come tensione perenne al conflitto: «Dove si schiude
una rosa decade una rosa / e uno è il tempo ma è di due verità.»
A
questo punto si comprende meglio come Fortini, da intellettuale
impegnato e militante qual era, nel ponderare il suo metodo tra
posizioni estetiche ed etiche e soluzioni formali, non pretendesse
tuttavia di dare soluzioni inflessibili alle domande di coerenza che
affioravano con crescente forza nei dibattiti politici e culturali
sulle sorti della sinistra italiana e sul marxismo critico, dalla
metà degli anni Cinquanta in poi, ma che fosse, con i suoi scritti,
l’evidenza stessa della necessità di una dialettica autentica
d’opposti tra contenuti di fatto e contenuti di verità: una
contrapposizione capace di accogliere con profondità e tensione
allegorica, oltre che storico-filologica e politica, i rischi sempre
in agguato dell’errore e della contraddizione. La cultura
progressista e l’intellettuale impegnato, per queste ragioni,
devono tendere alla «interruzione delle false unità» (F. Fortini,
Verifica
dei Poteri,
1974, p. 27) Lo testimoniano la denuncia degli elementi regressivi
nell’arte e nella poesia sua contemporanea, che egli interpreta
come rinuncia all’impegno, sia in Verifica
dei Poteri sia
in Saggi
Italiani,
e la natura stessa delle sue coraggiose dissertazioni, il rifiuto
spesso irritato ed emotivo ad ammettere quella che divenne una sua
acutissima constatazione, ovvero il compiersi della crisi della
dottrina marxista fagocitata dai quei processi di falsificazione del
reale che andavano chiarendosi negli anni Ottanta grazie alle tesi
sulla postmodernità di Jean-François Lyotard, in La
Condition postmoderne (1979).
La
necessità di mantenere irrisolta la tensione della contraddizione
permane, di fatto, utopicamente in tutta l’opera di Fortini.
Portare sempre in primo piano la disarmonia, il disequilibrio,
l’errore nei contesti storici, sociali e culturali di cui fu
testimone e protagonista, rappresentò per Fortini,
instancabilmente, come per Montale, una scelta che segnalasse la
fallibilità del dire poetico. La poesia, riuscendo a catturare
quotidianità e totalità, stabilisce, infatti, una comunicazione
più tragica, ma anche più vera con l’esistenza lacerata
dell’esistente: «Credo alla verità di alcune mie poesie perché
ogni loro verso porta il segno della contraddizione.» La poesia
«Sopra questa pietra», pubblicata in Composita
Solvantur (1994)
-
(tutto
si dissolva e si ricomponga in un nuovo ordine) che
coerentemente
recita:
Sopra
questa pietra
posso ora fermarmi. Dico alcune parole nello spazio
vuoto preciso.
Le grandi storie
tentennano in sonno,
vacillano
nelle teche i crani
dei poeti sovrani.
L’enigma
verde ride la sua promessa.
[...]
Lo spazio dei dilemmi è verde
e vuoto.
Non
può vedermi più nessuno qui, nessuno mi farà male mai più.[5]
Fortini,
come l’Ungaretti di «Sono una creatura», ricorre al lemma
«pietra», quale simbolo della progressiva riduzione a simulacro
della parola poetica. Quindi ricorre alla categoria della
contraddizione per denunciare il «vuoto» su cui si affaccia ogni
umano dilemma, risultante dalla lotta tra entità d’ estrema
densità e mancanza di contenuto, mettendo in risalto il suo essere
fulcro della resistenza ad ogni riduttiva conciliazione di opposti.
La poesia «La partenza», inclusa in Una
volta per sempre.
Poesie
1938-197,
mette a nudo il senso goethiano della contraddizione come «morso»,
che si trasferisce anche nella poesia di Fortini come forte valore
etico:
Ti
riconosco, antico morso, ritornerai
tante
volte e poi l’ultima.
Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata
la cartella con gli appunti,
ricordato
chi non sono, chi sono,
lo
schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora
respira
nel
sonno sempre la vita passata,
il
dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa,
atterrita tenerezza.
Ho
scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non
perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi
morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio,
e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai
cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza
capovolge i platani, scenderò per la via
verso
la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di
petti vivo,
attraverso
la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio
treno.
In
Composita Solvantur, la
coscienza della poesia come indizio di percorso e «certa fine»
(poesia perciò destinata alla dissoluzione ma anche a ricrearsi,
postmodernisticamente, dai suoi frammenti), è un concetto che
rappresentava il nucleo teorico anche de La
poesia delle rose,
idea che si ripropone come il segno più eloquente della fiducia di
Fortini in quelle realtà ossimoriche, perturbanti ed interagenti,
che la scrittura creativa e l’impegno intellettuale possono portare
alla luce. La poesia engagé
affronta per vocazione la struttura difficile di realtà scomode,
come dimostra la poesia di Pasternak, le opere teatrali e in versi di
Brecht, i racconti di Kafka, gli scritti filosofici di Kierkegaard,
testimoni di conflitti reali che compongono e scompongono le grandi
narrazioni storiche penetrate all'interno dello spazio testuale -
realtà che l'artista osserva e di cui è, o si fa, testimone. Per
Fortini, si tratta di testi in costante dialogo con il passato, il
presente ed il futuro della poesia, per la comprensione attraverso
l’arte di avventure umane così problematizzate che diventa
difficile afferrarne il senso molteplice ed elusivo, nel tentativo di
raggiungere verità irrisolte da non darsi mai una
volta per sempre.
Se una grande lezione ancora trasmette l’opera di Fortini, ora in
modo franco e diretto, ora obliquamente, è certo questa. E di tale
ostinata, benché dubbiosa, dunque paradossale mentalistica fede nel
dialogo
ininterrotto
e problematico con il mondo, certo si intravede il manierismo moderno
che caratterizzò in qualche misura la poesia di altri illustri
scrittori del Novecento come
Montale, Sereni, Caproni, Brecht.
Erminia
Passannnati, Scrittura
saggistica, dizione lirica e traduzione poetica nell'opera di Franco
Fortini, 2004
(First publshed in the UK)
***
Saggio tratto dalla tesi di Ph.D, Erminia Passannanti, Essay
Writing, Lyric Diction and Poetic Translation in the Work of Franco
Fortini (University
College London, 2004). All Rights Reserved.
Note:
1]
Lo scritto di G.C. Ferretti è pubblicato nel volume di saggi Per
Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia,
a cura di Carlo Fini, 1980, pp. 73-76.
2]
Si vedano i saggi di Fortini inclusi in Verifica
dei poteri che
discutono la tesi schilleriana dell’esigenza di un’educazione
estetica dell’umanità, in Lettere
sull’educazione estetica del genere umano (1795),
opera che sostiene il valore formativo dell’arte tragica.
3]
La questione è affrontata da Fortini ne La
poesia delle rose,
sui cui contenuti mi permetto di rimandare al mio volume Poem
of the Roses, Linguistic Expressionism in the Work of Franco Fortini
(Troubador,
2004).
4]
Per Benjamin, la verità, l’unità e la totalità delle cose
sono enfatizzate dalla dimensione enigmatica dell'opera d’arte nel
suo rapportarsi al presente massificato. Mi riferisco qui agli
scritti di Walter Benjamin sui linguaggi poetici, nei saggi «Sulla
lingua in generale e sulla lingua degli uomini», del 1916, «Il
compito del traduttore», del 1923, e «Il dramma barocco », del
1928.
5]
Franco Fortini, Composita
Solvantur (1994),
include poesie scritte da Fortini tra il 1984 e il 1993.