Saggio sulla poesia di Fortini


Erminia Passannanti: "Teorizzazione della contraddizione nell’opera di Franco Fortini"
Franco Fortini nel suo studio di fronte alla Olivetti.
Negli ambienti intellettuali del secondo dopoguerra, gli attacchi che Franco Fortini sferrava al sistema letterario e alle sue élites erano ben conosciuti e temuti, vuoi che li porgesse nelle chiuse forme della poesia, vuoi per via discorsiva nei suoi saggi. La tendenza allo scontro ideologico spesso superò l’inclinazione pur forte di Fortini al dialogo, tanto che, in svariate occasioni, il confronto con compagni e colleghi si tradusse in aperte polemiche che lo amareggiavano non poco, come accadde nel caso delle note controversie ideologiche con scrittori dello stesso fronte marxista, come Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino, o di tendenze diverse, come il liberalsocialista, Norberto Bobbio, le cui idee tuttavia stimolarono profondamente le sue riflessioni sui rapporti tra politica e cultura. Come si rileva a partire da Dieci inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista (1957), Verifica dei poteri (1965) e Questioni di frontiera (1977), fino a Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990) – Fortini scriveva, dunque, i suoi saggi con costante attenzione alla tensione e qualità dello scontro ideologico e tramite coraggiose analisi degli errori della cultura di sinistra, profetizzava la crisi che avrebbe investito il marxismo militante. Ne offre evidenza la poesia pubblicata nel 1966 ne L’ospite ingrato, «Diario linguistico », ripubblicata nel 1974 in Poesie Scelte, in cui, rivolgendosi a Pasolini, Fortini dichiarava:


Non imiterò che me stesso, Pasolini. Più morta di un inno sacro La sublime lingua borghese è la mia lingua. Non conoscerò che me stesso Ma tutti in me stesso. La mia prigione Vede più della tua libertà. (F. Fortini, Poesie scelte, 1974, p. 116)


La verità stessa della poesia, di cui nella seconda metà del Novecento fu uno dei massimi esponenti, è una dimensione complessa e conflittuale che in sé assimila armonia e caos, volontà di conciliazione e lotta. In poesia, ragione e sentimento sono, per Fortini, forze essenziali ed interagenti. Estimatore di Leopardi, Fortini affida alla contraddizione la sua stessa poesia, cogliendo il senso e la necessità di ogni umano conflitto. Utile a comprendere il valore di ciò che è problematico e disarmonico negli scritti di Fortini è l’aforisma di Blaise Pascal: «Né la contraddizione è indice di falsità, né la coerenza è segno di verità.» Se l’ « agire lirico», come «onda» cupa e potente, consolida la propria originalità nel trovare un suo assetto formale negli inevitabili legami con la lingua e la letteratura da cui deriva i suoi strumenti, nel trasgredirne sottilmente i canoni, esso procede anche per scontri e opposizioni, come suggerisce la poesia «Metrica e biografia» (Poesia e errore, 1959): «nelle grotte più chiuse dove cupa / molto contro le mura, onda, tu tuoni.» 
 
Dopo la militanza negli anni Cinquanta nelle pagine di Ragionamenti, Fortini sintetizza il proprio pensiero d’intellettuale impegnato e poeta nel volume di scritti critici Verifica dei poteri (1965) – uscito in contemporanea con il libro di Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo dove torreggia il saggio Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo, in cui tra l’altro discute dell’opera di Brecht. Impegnato nei dibattiti tra gli intellettuali della nuova sinistra su Quaderni piacentini, negli anni Sessanta Fortini inizia a sostenere una idea di dialettica non solo come conflitto permanente di opposti, capace di conferire senso alla storia nel segno della contraddizione conciliata; discostandosi dal materialismo dialettico di matrice rigorosamente marxista, inizia a sostenere che tali forze oppositive non solo liquidabili con la sola lotta di classe, quanto piuttosto mediante le trasformazioni determinate dalla rivoluzione culturale a cui pensava Mao Tze Tung, come si evince dal brano «Per la morte di un maestro», ne L’Ospite ingrato:


Nelle aule della scuola dove Mao aveva studiato e insegnato, in una città della Cina, abbiamo visto insegnare ai figli dei suoi nipoti. Questa distanza fa parte della figura di Mao. La coscienza della distanza ha sempre accompagnato il suo genio come vibrazione e rifrazione che impediva di vedere in lui solamente il politico, il capo di un popolo; che dava ad ogni sua azione o parola più di un senso e più di una durata. Era lui a prendere distanza da noi e dalle circostanze, ad alterare i contorni delle azioni con l’unione dei linguaggi antichi e modernissimi, di favola popolare, di saggistica intellettuale, di dialettica delicata o violenta, confondendo i secoli e le culture, le categorie, i morti e i vivi. (F. Fortini, Ospite Ingrato, n.117, 1966, p. 152)


In sede teorica, in articoli e saggi, come nei suoi versi, Fortini chiedeva alla poesia di rendere giustizia al suo fine ultimo, ovvero quello di conferire senso e ragione ai conflitti e alle contraddizioni del presente industrializzato senza trascurare un dialogo costruttivo con i valori della tradizione: «A loro (i versi) chiedo aiuto perché siano visibili / contraddizioni e identità fra noi. / Se un senso esiste, è questo.» (Fortini, L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici, 1966) La vicenda di Fortini, come poeta ed intellettuale partecipe di urgenti realtà storiche pre e postbelliche, che imponevano all’artista un’elevata tensione etica, fu complicata dunque dalla quasi totale fiducia che egli ripose nell’efficacia della contraddizione. Questa tendenza emerge infratestualmente in modo inequivocabile non solo in Verifica dei poteri (1965), L’ospite ingrato (1966), Questioni di Frontiera (1977), ma in opere più mature, come ad esempio Insistenze (l985). Nel saggio «Contro tiepidi spade», Gian Carlo Ferretti scrive:


Ma si tratta di una contraddizione feconda; non soltanto perché Fortini la vive pur sempre con una consapevole tensione di superamento, e di un superamento che dei due momenti contrastanti, la letteratura e l’altro, si arricchisca intimamente (significativa la sua ricorrente, appassionata e lucida ricerca di un nesso tra tempi brevi e tempi lunghi, funzione sociale dell’intellettuale e «disegno strategico» del poeta); ma perché, nel sostenere la «insostituibilità del discorso poetico e letterario» nel quadro della trasformazione rivoluzionaria della società, egli assume al tempo stesso quella contraddizione e quella tensione di superamento come momenti attivi all’interno stesso della sua poesia. Questo muro ne fornisce del resto prove di grande significato, dalle più implicite e sottili alle più trasparenti e quasi programmatiche.[1]


Se lo scrivere versi per Fortini si traduceva in poesia della realtà, questa rimaneva una zona inconciliata, a rendere problematico il contatto con le cose del mondo, segnando una difficoltà a cui il poeta, che si ammette senza riserve come uomo tra gli uomini, rivoluzionario, o eretico, immerso nella realtà capitalistica reificata, non può fare fronte nemmeno con l’impegno civile, che pure egli profuse sia come partigiano sia come redattore di riviste quali «Politecnico» e «Officina».Nell’introduzione all’intervista Il dolore della Verità, Maurizio Maggiani incontra Franco Fortini, Erminio Risso nota: Volendo fotografare questo modo di operare, si potrebbe ricorrere all’immagine del dialogo, dove a una voce che tenta una interpretazione esaustiva del mondo ne segue immediatamente un’altra che propone una serie infinita di obiezioni, pronte a smontare quello che pareva un momento di equilibrio, sebbene instabile. (E. Risso, Il dolore della Verità, 2000, p.15) La poesia del conflitto, pregna di umori e veleni (come emerge da «L’animale» è verità necessaria, che segna il rifiuto dell’arte a porsi al servizio dei potenti. Nell’autoprefazione al volume antologico di poesie di Fortini nella traduzione inglese di Paul Lawton, Summer is not All, l’autore notava:


Quando i critici sostengono che la mia poesia – persino quando si rivolge alle rose o parli di esse – sia di natura politica, in una certa misura sono in errore, e questa certa misura è importante. I miei versi hanno sempre l’intenzione – o l’illusione – di indicare delle coordinate (perfino quando siano nascoste in un aggettivo o in una virgola) e un punto specifico nel tempo e nello spazio, e lo fanno non unicamente per l’individuo ricco d’immaginazione, che parla in prima persona nei versi. Ho vissuto la prima metà della mia vita coltivando la convinzione che la poesia potesse opporsi, in qualche misura, alla «trionfante organizzazione dei bastardi. » Non ci credo più, oggi. [...] Nella penombra, cambia il senso delle affermazioni. Solamente la creazione di questa distanza da cui osservare le realtà e di un’ambiguità deliberata rende capaci di parlare della storia contemporanea e dei suoi punti di riferimento (F. Fortini, Summer is not All, 1992, p. 12).


La contraddizione in campo lirico è, pertanto, sentimento del reale, proposto in «forma etica » contro ogni falsa metafisica, come recita la poesia del 1958, «Il comunismo»:


Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m’hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.


La funzione poetica che Fortini teorizza nutre, dunque, la vocazione a rilevare le contraddizioni di ciò che è dato per scontato, per ricostituire le realtà del presente alla luce della critica, poesia che si concepisce come forza militante. Tale funzione si attua nel simultaneo cedere e resistere alla seduzione della forma tramite la figura della contraddizione irrisolta, creatrice di antinomie. Nella prefazione a L’ospite ingrato, Fortini scriveva:


Altro ancora ero venuto scrivendo, quasi con la mano sinistra: poesie che soprattutto stavano a provare momenti di fastidio per una qualche mia identità, metrica, stilistica; versi pseudonimi; prove di possibili traduzioni immaginarie; smentite alla coerenza manieristica, che è la più facile. [...] Ma sembra che ad una coerenza qualsiasi o alla sua intenzione sia impossibile sfuggire. Come si fa con le carte non col vino, «taglio» allora in questo libretto un certo numero di quei versi con quanto può parere più lontano da loro, (vale a dire) note di raziocinio o di ideologia, dispute su passioni colpite da morte apparente, fogli che pretenderebbero sollevarsi dal confuso diario immaginario che chiunque redige: per tendere dissonanze, spezzare ogni accento melodico, costringere a un doppio gusto, a un dissapore. (F. Fortini, L'ospite ingrato, 1966, pp. 9-10)

Fortini ha parlato dell’esistenza all’interno del marxismo critico di due poli opposti, di cui quello militante normativo, che riproduce le dottrine ufficiali del partito, ovvero dello Stato, e giudica l’artista formalista un pericoloso antagonista, è riscontrabile nelle tesi di Lukács, il quale sollecitava l’arte all’impegno verso il realismo sociale. L’artista borghese, da questa prospettiva, non fa che riprodurre la sottomissione della sovrastruttura che lo Stato rappresenta agli interessi economici delle classi dominanti: ne consegue che l’artista impegnato deve condurre in primis la sua lotta contro l’arte borghese. Il secondo tipo è il marxismo francofortese delle varie tesi sull’arte di Adorno, Horkheimer, Benjamin, e Marcuse, che tendono a giustificare i fenomeni artistici da una prospettiva che procede dialetticamente per via negativa: «La contraddizione in questi pensatori non è più scandalosa, ma istituzionale.» (F. Fortini, Verifica dei Poteri,1974, p. 225).
L’incidenza del tema della contraddizione nell’opera di Fortini acquista centralità nella raccolta Poesia e errore (1969), fondata sulla natura sostanzialmente instabile del reale, e sul rapporto di questa dimensione apparentemente ultima, ma intrinsecamente instabile ed ingannevole, con il soggetto, la politica, il mondo dell’arte. 

Per Fortini, la funzione dell’agire lirico è particolarmente rivelatrice di tale inganno, ed, in questa sua funzione, la poesia assume un ruolo trasgressivo, muovendosi in modo inversamente proporzionale al suo assetto formale. La pretesa d’assoluto della parola fraintesa e conciliata a forza. La poesia, ogni poesia,lirica, di qualsiasi epoca, si disgrega proprio nel suo darsi, come fa, come evento estemporaneo, circostanziale, collettivo o personale. Il concetto viene ripreso con insistenza da Foglio di Via: «Come l’azione politica, la poesia è il risultato di operazioni combinatorie compiute su un definito numero di dati e di termini. [...] Le verità vi si fanno a partire dagli errori.» (Fortini, Foglio di via, 1946, p. 9) Paradossalmente, continua ad affermare nel tempo Fortini, è l’errore che garantisce credibilità a ciò che chiamiamo verità: «Nessun errore, si sa, è più grave di quelli che nascono da una verità, ma guai a chi, per evitare gli errori, rinviasse l’apparizione della verità.» (Fortini, Extrema Ratio, 1990, p. 94) Anche il succedersi di tradizioni nell’ambito umano della cultura non rappresenta altro che una serie di malintesi della sfera logica, che avrebbero luogo nell’esercizio del linguaggio.

La poesia romantica, con la sua fede nella forza del sentimento e del dominio dell’irrazionale, ha nutrito la speranza di pervenire al senso del mondo, armonizzando la sfera ideale con quella dell’errore insito nelle cose umane. Ciò non costituisce per Fortini il vero limite di questa tradizione, in quanto si tratta di un difetto teorico indotto dalla filosofia idealista che ha speculato sulla funzione conciliativa dell’arte. La poesia romantica per Fortini ha valore, al contrario, appunto perché, in ogni sua espressione, è indizio dell’autoinganno, insito nella forzata volontà della ragione di una conciliazione degli opposti: «Credo alla verità di alcune mie poesie perché ogni loro verso porta il segno della contraddizione.» Mentre mantiene stretti legami di deferenza con la lingua letteraria e la tradizione, da cui attinge i suoi strumenti, il poeta lirico che sappia progredire oltre la mera imitazione, deve al contrario contravviene ai canoni, in base agli ostacoli in cui si imbatte, come recita «Metrica e biografia», in Poesia e errore, del 1959, «nelle grotte più chiuse dove cupa / molto contro le mura, onda, tu tuoni ». Prendendo spunto dalla lirica leopardiana dei Canti, interprete d’una dissociazione tragica fra poesia e verità, Fortini sottolineava come la poesia conceda a chi se ne faccia autore – attraverso la forma che le è propria – la consumazione estetica di un’esperienza falsamente «totalizzante», che in passato era stata privilegio esclusivo degli spazi sacri, la quale non può non tradire la sua natura caduca, ingannevole. Dunque, metteva in guardia contro il cedere alla gratificazione della forma che ogni scrittura, nel suo consolidarsi, sottende. 
 
Fortini, come poeta e intellettuale, cosciente della natura intrinsecamente dialettica e sfuggente del reale, non ricercherà la gratificazione del linguaggio lirico, né s’ingannerà sull’esistenza di una lingua originaria, coincidente con il pensiero emotivo, ma sistemerà nella contraddizione e nella lotta il senso della sua ricerca. (Luperini, La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini. (Luperini, 1986) Sul fronte dell’impegno politico, Fortini ha, infatti, indirizzato costantemente verso l’esterno questa tensione etica interiore, ovvero crisi perenne di coscienza. 
 
Sebbene Fortini ebbe posizioni non conciliabili con le proposte della neoavanguardia, costituitesi sulla polemica anti-idealistica e anti-romantica de La critica del gusto, di Galvano della Volpe (1971), pur tenendosi al margine del romanticismo leopardiano, ne stimava il suo essere traccia della lesione costituitasi tra i due modi fondamentali di essere della poesia: la dimensione lacerata del mondo delle relazioni pubbliche, e quella inconciliata della sfera estetica. Fortini aveva difatti a cuore l’eredità del pensiero tragico di Schiller.[2] Il tragico dell’estetica schilleriana, che emerge dal conflitto tra eticità, pragmatismo e spiritualità, rappresentò infatti il vero tramite per la teorizzazione della contraddizione. Tuttavia, diversamente dai romantici, che nella dimensione tragica vagheggiavano la possibilità del superamento della frattura tra estetica ed etica, Fortini non cercava di conciliarne gli opposti, bensì – e in modo forse più kantiano che nello stesso Schiller – di drammatizzarne la separazione. 
 
Il contrasto tra l’esigenza di libertà espressiva del poeta e la legge morale dell’intellettuale impegnato riassume il tema principale del poemetto del 1962, La poesia delle rose[3], dove Fortini nega che la poesia possa mai pervenire ad una conciliazione di sentimento e ragione, pur tendendovi tramite la forma. Come l’autore suggerisce ne La poesia delle rose, la più efficace destabilizzazione che il poeta possa fare dello status quo non si pratica con la forzata conciliazione degli opposti, che avviene spontaneamente solo in certi fenomeni della natura, ma spingendo fino ad un limite estremo sul piano formale la loro complessa e spontanea interazione. Nella ricerca di un’impossibile conciliata verità, il poeta precede, infatti, per indizi, condannato com’è ad imbattersi nell’errore. In «Canzone» una poesia del 1959, inclusa in Poesie ed errore, l’autore anticipava il tema della perdita del senno come cedimento della ragione sotto il peso dell’angoscia e delle contraddizioni («Uomini usciti di pianto e di ragione»), laddove pianto e fallimento emancipano l’artista, secondo formule tassiane, goethiane o leopardiane. Fortini ebbe a notare: «Non sarebbe immaginabile una sinfonia che non smettesse mai. All’interno di qualunque lirica, la divisione in parti è già questo...» (Fortini, L'ospite ingrato, p. 162) La forma poetica, nel suo evolvere, trarrebbe vantaggio, paradossalmente, dalla rottura o divisione delle sue singole parti, e, pur nell’unità, dall’«aspettativa della fine», che le aggiunge sostanza, direzione e meta. Ne consegue che, sul piano logico, ogni premonizione di morte sia aspirazione contraddittoria, presagio di declino, ma anche garanzia di vita, universalità e compiutezza, come Leopardi dimostra ne «L’infinito», (Fortini, Dei confini della poesia, 1986). Tale polarità, capace di determinare contraddizioni acute come una spina nel fianco, Fortini spiega nel saggio «Il passaggio della gioia», rafforzerebbe la funzione tragica del linguaggio poetico:


(La poesia) assolve l’uffizio di essere un assillo ad un adempimento reale, interumano, della propria immagine formale e ad un tempo luogo di consumazione anticipata (quindi mistificata come quella di una droga o di un’ostia) d’una pienezza fulminea e immaginaria. (F. Fortini, Verifica dei poteri, 1965, p. 254)


Il poeta, ammonisce Fortini, deve, tuttavia, agire una resistenza contro la gratificazione della forma. Egli stesso in concreto mostra il modo in cui procedere in direzione lukacsiana, deducendo sia in poesia sia in saggistica l’universale dal particolare, le verità fulminanti dai conflitti, i giudizi estetici dalla sintesi dei dati rilevati dalla prospettiva storica, come sottolinea Luperini nella sua prefazione al volumetto postumo, Breve Secondo Novecento (1996 ). Fortini non ricerca, né apprezza, la spontaneità o il vitalismo del linguaggio lirico romantico tout court, né s’inganna sulla poesia quale lingua di eletti, ma, come Benjamin, sostiene la forza lirica della realtà nei suoi conflitti e paradossi.[4] Ne La poesia delle rose, Fortini ribadisce l’esistenza di verità il cui equilibrio può essere inteso come tensione perenne al conflitto: «Dove si schiude una rosa decade una rosa / e uno è il tempo ma è di due verità.»
A questo punto si comprende meglio come Fortini, da intellettuale impegnato e militante qual era, nel ponderare il suo metodo tra posizioni estetiche ed etiche e soluzioni formali, non pretendesse tuttavia di dare soluzioni inflessibili alle domande di coerenza che affioravano con crescente forza nei dibattiti politici e culturali sulle sorti della sinistra italiana e sul marxismo critico, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, ma che fosse, con i suoi scritti, l’evidenza stessa della necessità di una dialettica autentica d’opposti tra contenuti di fatto e contenuti di verità: una contrapposizione capace di accogliere con profondità e tensione allegorica, oltre che storico-filologica e politica, i rischi sempre in agguato dell’errore e della contraddizione. La cultura progressista e l’intellettuale impegnato, per queste ragioni, devono tendere alla «interruzione delle false unità» (F. Fortini, Verifica dei Poteri, 1974, p. 27) Lo testimoniano la denuncia degli elementi regressivi nell’arte e nella poesia sua contemporanea, che egli interpreta come rinuncia all’impegno, sia in Verifica dei Poteri sia in Saggi Italiani, e la natura stessa delle sue coraggiose dissertazioni, il rifiuto spesso irritato ed emotivo ad ammettere quella che divenne una sua acutissima constatazione, ovvero il compiersi della crisi della dottrina marxista fagocitata dai quei processi di falsificazione del reale che andavano chiarendosi negli anni Ottanta grazie alle tesi sulla postmodernità di Jean-François Lyotard, in La Condition postmoderne (1979). 
 
La necessità di mantenere irrisolta la tensione della contraddizione permane, di fatto, utopicamente in tutta l’opera di Fortini. Portare sempre in primo piano la disarmonia, il disequilibrio, l’errore nei contesti storici, sociali e culturali di cui fu testimone e protagonista, rappresentò per Fortini, instancabilmente, come per Montale, una scelta che segnalasse la fallibilità del dire poetico. La poesia, riuscendo a catturare quotidianità e totalità, stabilisce, infatti, una comunicazione più tragica, ma anche più vera con l’esistenza lacerata dell’esistente: «Credo alla verità di alcune mie poesie perché ogni loro verso porta il segno della contraddizione.» La poesia «Sopra questa pietra», pubblicata in Composita Solvantur (1994) - (tutto si dissolva e si ricomponga in un nuovo ordine) che coerentemente recita:


Sopra questa pietra
posso ora fermarmi. Dico alcune parole nello spazio vuoto preciso.
Le grandi storie
tentennano in sonno, vacillano
nelle teche i crani
dei poeti sovrani.
L’enigma verde ride la sua promessa.
[...]
Lo spazio dei dilemmi è verde e vuoto.
Non può vedermi più nessuno qui, nessuno mi farà male mai più.[5]


Fortini, come l’Ungaretti di «Sono una creatura», ricorre al lemma «pietra», quale simbolo della progressiva riduzione a simulacro della parola poetica. Quindi ricorre alla categoria della contraddizione per denunciare il «vuoto» su cui si affaccia ogni umano dilemma, risultante dalla lotta tra entità d’ estrema densità e mancanza di contenuto, mettendo in risalto il suo essere fulcro della resistenza ad ogni riduttiva conciliazione di opposti. La poesia «La partenza», inclusa in Una volta per sempre. Poesie 1938-197, mette a nudo il senso goethiano della contraddizione come «morso», che si trasferisce anche nella poesia di Fortini come forte valore etico:


Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
 Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.
Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro il loro fiume triste, di petti vivo,
attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

In Composita Solvantur, la coscienza della poesia come indizio di percorso e «certa fine» (poesia perciò destinata alla dissoluzione ma anche a ricrearsi, postmodernisticamente, dai suoi frammenti), è un concetto che rappresentava il nucleo teorico anche de La poesia delle rose, idea che si ripropone come il segno più eloquente della fiducia di Fortini in quelle realtà ossimoriche, perturbanti ed interagenti, che la scrittura creativa e l’impegno intellettuale possono portare alla luce. La poesia engagé affronta per vocazione la struttura difficile di realtà scomode, come dimostra la poesia di Pasternak, le opere teatrali e in versi di Brecht, i racconti di Kafka, gli scritti filosofici di Kierkegaard, testimoni di conflitti reali che compongono e scompongono le grandi narrazioni storiche penetrate all'interno dello spazio testuale - realtà che l'artista osserva e di cui è, o si fa, testimone. Per Fortini, si tratta di testi in costante dialogo con il passato, il presente ed il futuro della poesia, per la comprensione attraverso l’arte di avventure umane così problematizzate che diventa difficile afferrarne il senso molteplice ed elusivo, nel tentativo di raggiungere verità irrisolte da non darsi mai una volta per sempre. Se una grande lezione ancora trasmette l’opera di Fortini, ora in modo franco e diretto, ora obliquamente, è certo questa. E di tale ostinata, benché dubbiosa, dunque paradossale mentalistica fede nel dialogo ininterrotto e problematico con il mondo, certo si intravede il manierismo moderno che caratterizzò in qualche misura la poesia di altri illustri scrittori del Novecento come Montale, Sereni, Caproni, Brecht.


Erminia Passannnati, Scrittura saggistica, dizione lirica e traduzione poetica nell'opera di Franco Fortini, 2004 (First publshed in the UK)


*** Saggio tratto dalla tesi di Ph.D, Erminia Passannanti, Essay Writing, Lyric Diction and Poetic Translation in the Work of Franco Fortini (University College London, 2004). All Rights Reserved.


Note:


1] Lo scritto di G.C. Ferretti è pubblicato nel volume di saggi Per Franco Fortini. Contributi e testimonianze sulla sua poesia, a cura di Carlo Fini, 1980, pp. 73-76.
2] Si vedano i saggi di Fortini inclusi in Verifica dei poteri che discutono la tesi schilleriana dell’esigenza di un’educazione estetica dell’umanità, in Lettere sull’educazione estetica del genere umano (1795), opera che sostiene il valore formativo dell’arte tragica.
3] La questione è affrontata da Fortini ne La poesia delle rose, sui cui contenuti mi permetto di rimandare al mio volume Poem of the Roses, Linguistic Expressionism in the Work of Franco Fortini (Troubador, 2004).
4] Per Benjamin, la verità, l’unità e la totalità delle cose sono enfatizzate dalla dimensione enigmatica dell'opera d’arte nel suo rapportarsi al presente massificato. Mi riferisco qui agli scritti di Walter Benjamin sui linguaggi poetici, nei saggi «Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini», del 1916, «Il compito del traduttore», del 1923, e «Il dramma barocco », del 1928.
5] Franco Fortini, Composita Solvantur (1994), include poesie scritte da Fortini tra il 1984 e il 1993.

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