La macchina come allegoria del linguaggio: lettura metapoetica del poemetto Macchina (2000) di Erminia Passannanti
La macchina come allegoria del linguaggio: lettura metapoetica del poemetto Macchina (2000) di Erminia Passannanti
Introduzione di Romano Luperini
Manni Editore (Lecce, 2000)
Saggio di analisi semiotica del testo poetico
Antonella Sartor (Venezia, 2004)
Il poemetto omonimo di Erminia Passannanti (2000) si configura come un campo di forze teoriche in cui la poesia non è più il luogo della mimesis né dell’espressione lirica, ma un dispositivo — nel senso foucaultiano e agambeniano — che espone il funzionamento stesso del linguaggio e la sua ontologia fratturata. La macchina che vi compare è oggetto, ma al contempo una struttura epistemica: un principio di articolazione e insieme l’indice del suo fallimento. Ciò che il testo mette in scena è la condizione materiale della significazione, la sua precarietà, la sua dipendenza da un corpo tecnico che, rompendosi, rivela l’essenza stessa del linguaggio come scarto, differimento, interferenza. In questo senso, la poesia di Passannanti è eminentemente teorica: parla dal luogo in cui il linguaggio si guarda funzionare, e proprio mentre si guasta.
1. La macchina come scena originaria del linguaggio
L’immagine del carrello lungo la pazzia instaura immediatamente una topologia oscillante: un movimento binario che ricorda la navetta del telaio e il carrello della macchina da scrivere. Questo duplice riferimento situa la scrittura in una zona ibrida tra il meccanico e il corporeo. Come scrive Barthes, «il testo è un tessuto» e la struttura del senso è un intreccio di forze eterogenee. L’oscillazione diventa così il primo gesto del linguaggio: un avanzare e retrocedere, un procedere che non conosce linearità stabile. Qui la “pazzia” è una modalità del ritmo: il linguaggio procede per deviazioni, vibrazioni "sbagliate", note dolorose.
2. Guasto, interferenza, eccedenza del segno
La rottura della macchina, ferri mancanti, molle saltate, più che incidente, è la figura fondamentale della poetica di questo testo fondamentale della Passannanti. Il linguaggio si dà sempre sotto forma di crepa. In questo senso, il poemetto sembra dialogare implicitamente con Derrida, per il quale il segno «si separa dall’origine» e scivola nella differance. Ogni tentativo di significare è già interferito da un rumore che ne altera la traiettoria. Il testo insiste su odori, onde, rumori: elementi sensoriali che non appartengono al codice ma che lo disturbano. È ciò che Kristeva chiamerebbe il semiotico: pulsione, ritmo irregolare, flusso non simbolizzabile che attraversa il linguaggio e ne impedisce la chiusura sistemica. In questo senso, il guasto è il luogo in cui la poesia diventa possibile: il punto in cui il simbolico, destabilizzato, si mostra nella sua nudità.
3. La contesa della macchina: il politico del linguaggio
La macchina, nella seconda parte del poemetto, diventa oggetto di contesa: qualcuno la sottrae, altri la rompono, altri ancora ne rivendicano l’uso. Qui emerge una dimensione chiaramente politica. La macchina è l’emblema della facoltà di parlare, della possibilità di occupare lo spazio del discorso, di esistere in sé e tra gli altri esseri umani. La voce poetica, “mendica in casa propria”, sente di essere, in questo contesto metaforico, una figura radicale di espropriazione: possiede la soggettività ma non il diritto di significare. In tal senso, il poemetto si colloca nella scia di una riflessione agambeniana: «Chi è escluso dal linguaggio non è privo di parola, ma privo del luogo in cui la parola può essere pronunciata». La macchina diventa così il luogo di un conflitto per l’accesso alla significazione.
4. Cucire, sfilacciare, esporre: il lavoro del segno
Tessere, cucire, imbastire sono metafore antiche della scrittura. Passannanti le riprende, ma ne mostra il fallimento strutturale. La protagonista non riesce più a infilare l’ago, il filo si spezza. Il significante sfugge alla presa. Kristeva descrive questa dinamica come «sfilacciamento del senso»: il linguaggio non può essere esaminato come possesso, ma processo continuamente iniziato, perfezionato, o interrotto. La svolta avviene quando l’ago viene posto alla finestra: non più strumento operativo, ma oggetto esposto: simbolo assoluto. Blanchot, in L’espace littéraire, descrive l’opera come ciò che "si sottrae alla funzione" e rivela la propria materialità. L’ago alla finestra è precisamente questo: il linguaggio reso corpo, mostrato nella sua potenza e insieme impotenza produttiva e tuttavia presente a se stesso dinanzi al mondo che lo significa o designifica.
5. Inverno: sospensione, sottrazione, ascolto
L’ingresso dell’inverno introduce una fenomenologia dell’ascolto. L’inverno come stagione, è una condizione del linguaggio: una rarefazione del mondo che permette di udire ciò che normalmente è sommerso dal rumore del vivente. In questo senso, l’inverno funziona come ciò che Agamben definirebbe uno spazio di inoperosità: una sospensione dell’operare tra privazione e possibilità di una nuova forma di percezione.
Il testo afferma che l’inverno «perfeziona l’udito» e «esalta l’ordito». È un paradosso apparente: la stagione che tutto immobilizza diventa il luogo di un’ascesi percettiva. Qui si manifesta una vicinanza al pensiero di Blanchot, per il quale l’opera nasce nello spazio dell’interruzione, del silenzio, dell’estraneità rispetto al mondo. L’inverno è dunque il luogo teorico in cui il linguaggio può apparire nella sua nudità. Il rumore è sospeso; resta soltanto il ritmo minimo del segno. “Macchina” suggerisce che la poesia non è un atto esclusivamente produttivo ma un atto finemente ricettivo: essa ascolta ciò che il linguaggio stesso dice nel suo silenzio strutturale. L’inverno, allora, è insieme metafora di una difficoltà, ma anche dispositivo e principio che regola il rapporto tra soggetto e linguaggio, tra ciò che può essere detto e ciò che resta nel dominio dell’indicibile, del non detto che è sempre un dominio nascosto (o in agguato) difficilmente accessibile sotto la coltre della poesia lirica.
6. La ribellione contro le macchine della poesia
La dichiarazione finale, «non voglio macchine da scrivere, è un atto di rivolta contro ogni automatizzazione del poetico. La voce del testo respinge i meccanismi che «fanno i poeti», coloro che «vengono qui a fare i poeti» come in una sorta di officina dell’imitazione. Qui si apre una riflessione di tipo barthesiano: se la scrittura può diventare mito, rito, posa, allora essa rischia di trasformarsi in una pratica morta, replicabile, tecnica nel senso più povero del termine. Il martellare dei tasti, o degli attrezzi, diventa una violenza sonora, un’ingerenza del discorso altrui che invade lo spazio dell’autrice. Il linguaggio che pretende di prodursi come poesia genera soltanto rumore. Tuttavia, in un gesto di complessità che la sottrae a ogni posizione semplicistica, la voce riconosce che questi rumori «sono utili alla dissipazione della casa». Il rumore diventa allora funzione critica: la distruzione della struttura abitativa (metafora della soggettività, della forma-poesia, del linguaggio stesso) permette di vedere ciò che normalmente resta nascosto. È una posizione che ricorda le analisi di Jacques Derrida: il rumore, l’interferenza sono esterni alla struttura, ma anche il luogo in cui essa mostra la sua verità. Il rifiuto finale della macchina (si allude infatti alla macchina umana, di rianimazione, da cucire, da scrivere) di una persona in una posizione ad alto rischio tra la fine effettiva della vita organica e l’istinto ineliminabile di sopravvivenza vede alla tecnica come un potenziale pericolo che potrebbe sopraffare il mondo naturale nel suo normale decorso: un rifiuto di quella meccanicità che pretende di produrre automaticamente ciò che richiede invece esposizione all’esperienza, all’avventura e, dunque, alla frattura e al declino di quello che è diventato, o che è sempre stato, inconciliabile.
7. Conclusione: la macchina come allegoria dell’atto poetico
Lungo tutto il poemetto della Passannanti, la macchina assume una valenza allegorica stratificata e densa di significati ulteriori che sfociano in altri molteplici campi dell’agire umano. Essa è un corpo tecnico, un luogo politico, un ritmo, una vulnerabilità, una soglia. È la condizione stessa del linguaggio come dispositivo sempre in bilico tra funzionamento e guasto. Passannanti, nel farla vibrare, rompersi, essere contesa, esposta, silenziata, restituisce al linguaggio la sua natura più radicale: quella di essere un movimento instabile, un intreccio di forze eterogenee, un campo di significazione che non ha mai una forma definitiva. Il guasto che accade alla macchina umana (il corpo) e della poesia (la scrittura) è l’epifania che permette alla vera poesia di accadere. Il linguaggio, quando si spezza, rivela la propria struttura. Quando fallisce, mostra il proprio ritmo originario. La macchina è dunque la figura teorica di questa esposizione: ciò che articola e al tempo stesso ciò che cede. In questo senso, il poemetto di Passannanti appartiene a una linea filosofica ed estetica della modernità novecentesca che include Mallarmé, Blanchot, Derrida, Kristeva: una poesia che non rappresenta il mondo, ma il proprio venire al mondo, una poesia che mostra la propria materia nel suo andamento di sviluppo e nel suo eventuale incappare in un fatale guasto irreparabile.
Antonella Sartor, di Venezia (IT) è stata una studiosa della semiotica del testo poetico e di psicologia del linguaggio afasico.
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MACCHINA
Mantiene il carrello lungo la pazzia,
segue piano il binario, chissà
cosa succede nel cuore della notte,
(il carrello lungo la pazzia
mi tiene in alto).
Capitano, i casi, all’orologio minimo.
Bisogna starci attenti.
Utile non avere troppe nozioni d’arte,
(medici vanno e vengono, fanno le cose a sfregio,
mentre il braccio mi sgocciola).
Dicono: “In questa stanza ci sono troppi odori.”
Io non avverto nulla da questa mia distanza,
solo onde all’orecchio, rumori,
dolori la cui origine era la macchina.
Vibrazioni sbagliate prodotte
a notte da note dolorose.
La macchina rotta.
Tanto vale farne senza,
preferisco non averla,
me la rompono apposta.
C’è chi vi siede e lavora
per impedire che lavori chi l’aveva.
Chi l’aveva si dibatte e si dispera.
Non vuole cucire la biancheria.
Ho pianto la vita. Adesso rido.
Appunto per questo, per la macchina,
(vedo come lo sfregio continua
ignoto sulla stoffa).
Stavo come un Lucifero, il mio bel nome
dissipato dal dubbio
di una lurida insinuazione.
È stata tolta.
Mi sento rinascere.
Se scompare piango, se ricompare
divento uno straccio, a casa mia mendica,
una mendica in casa propria,
la sorte decisa d’un tratto,
presa nell’ingranaggio, così.
Sorse un rumore che mi dava fastidio,
un fastidio arrecato da qualcuno
che si era preso la briga
di far saltare le molle.
Di notte non procedeva.
Volevo vedere fino a che punto
riusciva a realizzarsi nel suo fondo,
mostrarlo a chi l’aveva messa in palio
con l’essere vivente, che tutti i giorni
(con essa) funziona.
Stiamo parlando della macchina,
una macchina nera
che non posso più usare – giacché manca
dei ferri. I ferri che servono a se stessi.
E ditemi: se questo qualcuno
se n’è servito, a chi ha ceduto i congegni
che aiutano a usare la macchina?
Li ha ceduti a qualcuno senza macchina,
che furoreggia senza controllo,
che ritiene, senza diritto, il mio carrello escandescente, mentre pretende da me
il martello, il meccanismo a molle, tutto
l’occorrente per potersi sollevare? Non interessa
il mio necessitare di una matita, di una penna?
Mi tengono chiusa in questa stanza
insieme a un nero ordigno
che sfrutta le mie risorse.
Non sa usarlo, la ragazza,
e l’ha trasferito altrove, l’attrezzo.
Una piccola macchina per cucire
che diverge i suoi pensieri.
Ci sta attenta e riuscirà ad usarla,
mentre io smarrisco la via
oltre l’imbastitura.
Non riuscivo più a infilare l’ago,
a girare la manovella,
a sentirmi umiliata, annientata, ‘Povera me!’,
dicevo “Sentirmi uno zero
dinanzi a quei lavori irrilevanti
che l’altra saprà a fare, e io non più.
No, non ci vedo. No!”
Ma so parlare, esprimere desideri:
prendo l’ago, lo metto alla finestra,
lo faccio agire.
Lo faccio ingoiare
a chi non sa leggere i miei pensieri,
a chi marcia o fa l’orlo.
La mia macchina funziona
con tutte le bellezze dell’inverno,
quelle che hanno perfezionato il mio udito.
Conosco le bellezze dell’inverno,
e credo siano quelle che esaltano l’ordito.
Vadano tutti via da casa mia.
Non voglio in giro macchine da scrivere.
Vengono qui a fare i poeti!
(Questo fastidioso martellare
fa pensare alla mia finestra rotta.
Penso sia utile alla dissipazione della casa.
Sono iniziati i lavori dappertutto.
Non c’è silenzio, intorno. Non c’è pace.
Martellate, randellate. Sempre.)
Bibliografia essenziale
Agamben, Giorgio. Che cos’è un dispositivo? Nottetempo, 2006.
Barthes, Roland. Le plaisir du texte. Seuil, 1973.
Barthes, Roland. S/Z. Seuil, 1970.
Blanchot, Maurice. L’espace littéraire. Gallimard, 1955.
Derrida, Jacques. De la grammatologie. Minuit, 1967.
Kristeva, Julia. La révolution du langage poétique. Seuil, 1974.
Passannanti, Erminia. Macchina. Poesie, 2000.