Erminia Passannanti: "Palude"

 


“Palude”


Il mio petto era terreno coperto 

d'acqua stagnante, bocciavano

sopra di me,

inibite, le ninfee, 


una palude

dolce presso 

un piano salmastro. 


Senza ossigeno, il mio corpo

era molle nel  pianto 

di alghe sotterranee.


Il mio cuore soffriva 

l’ inondazione temporanea,

pativa l’ossidazione minerale

nel suo fondo

erbaceo e marcescente.








COMMENTO DI ANTONELLA SARTOR


“Palude” è un testo breve ma densissimo, narrato al tempo verbale “Imperfetto”: non un autoritratto emotivo ma un chiaro monologo drammatico, in cui l’acqua stagnante diventa insieme simbolo di sofferenza e matrice di rigenerazione nella donna. La voce poetica non cerca consolazione per sé, ma narra di una condizione femminile: osserva la stasi con lucidità quasi mineralogica, trasformando la materia del dolore del corpo in paesaggio linguistico.

Il timbro è elegiaco ma non melodrammatico: la condizione emotiva è trattenuta, “ossidata” come la materia descritta. La sintassi è essenziale: frasi nominali, pochi verbi, molti sostantivi concreti. Si avverte una densità sinestetica: il lettore “sente” la viscosità, l’odore marcescente, il verde cupo. 

Lo stile prosegue la poetica di Erminia Passannanti, fondata su un linguaggio ricco di simbolismi e sulla trasformazione del corpo in paesaggio, già presente in altre sue liriche: l’io diventa scena naturale, quasi pittorica, in cui la materia vegetale e minerale riflette un’ecologia emotiva. 

Sul piano strutturale e ritmico emergono quattro brevi strofe di lunghezza irregolare, frasi spezzate e punteggiate da enjambement (“coperto / d’acqua stagnante”, “era molle nel pianto / di alghe”). 

La netta punteggiatura favorisce un fluire lento e acquoso, che riproduce il tema dell’acqua ferma. Il lessico è concreto (“alghe”, “minerale”, “ossidazione”) collocato in un contesto interiore: il paesaggio fisico diventa anatomia. La palude e l’acqua stagnante evocano immobilità e ristagno, ma anche la gestazione latente.  L’“ossidazione minerale” rappresenta il tempo che corrode, un dolore esistenziale silenzioso. Le “alghe sotterranee” alludono a una vita nascosta, vegetazione che continua nonostante il pianto. Il corpo è fulcro e paesaggio: il petto diventa ecosistema.

Tuttavia, l’immagine delle “ninfee inibite” offre l’idea di una bellezza trattenuta, promessa in boccio.

 La palude è, infatti, il cuore che trattiene emozioni, lutti o passioni private, persino storiche e ataviche. L’acqua dolce su piano salmastro coniuga dolcezza e salinità, due nature dell’esperienza emotiva, affetto e amarezza. L’assenza di ossigeno suggerisce una soffocante mancanza di respiro, ma anche una trasformazione chimica che prelude a rinascita in un terreno paludoso e fertile. Il corpo “molle nel pianto” indica resa e, insieme, disponibilità a un rinnovamento culturale oltre che biologico. 

L’insieme descritto, chiaramente visibile nei toni grigio verdi, richiama archetipi psicoanalitici: l’elemento acquatico come inconscio, la palude come spazio liminale fra vita e morte, fra memoria e oblio. 

In questa alchimia interiore, l’ossidazione appare come processo di mutamento che prepara una nuova forma di vita, mentre il corpo femminile è una biosfera che registra ogni squilibrio, tema centrale nella poesia femminile del secondo Novecento e contemporanea. 

Vi è un riferimento alla poesia “Bog”, del poeta irlandese Premio Nobel, Seamus Heaney della raccolta North che la Passannanti ha tradotto interamente. Al tempo stesso, Passannanti resta poetessa “classica”, capace di attingere alla grecità e in questo testo  la mitologia femminile dell’acqua, con ninfee, paludi e acque dolci, rimanda a figure di fertilità e metamorfosi, da Dafne a Ofelia.



(Antonella Sartor, Venezia)




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