Prefazione a Macchina, di Romano Luperini.
Prefazione a Macchina
di Romano Luperini
1.
Il titolo
Il titolo del libro è preso dal primo
componimento della serie «In Jugoslavia con i piedi per terra». La macchina di cui qui si parla dapprima
sembra collocata in una corsia d’ospedale (quasi macchina di rianimazione):
condiziona l’orizzonte percettivo, è un filtro che perde pezzi, non funziona
più, determinando nel soggetto afasia, umiliazione, senso di annientamento,
incapacità non solo di parlare, ma di vedere; poi diventa la macchina da cucire
e il termine di un confronto (svantaggioso per l’io) fra madre e figlia; infine
macchina da scrivere. In ogni caso è una sorta di protesi dell’io, di strumento
di mediazione, di percezione e anche di comunicazione; ma si tratta comunque di
una protesi inerte, inefficace. Il
risultato è una sensazione di stordimento, di oppressione, di mancanza di
intimità e di identità in un mondo di frastuono e di incubo (si veda la strofa
finale di Macchina).
2.
La dedica
Il libro è dedicato alla madre. La quale è
insieme specchio di una dissociazione e di una impotenza e luogo dell’origine e
dell’identità perdute. La madre è stata pure lei colpita da immobilità,
impotenza, afasia, dissociazione e in questo è un “doppio” del soggetto poetico
(«dura madre/ priva di nucleo»); e tuttavia è anche il primo anello di una
catena, di un legame vitale che si è smarrito. L’episodio della sottana
trasmessa alla figlia e da lei perduta
in qualche albergo assume un valore emblematico: quello di un lascito tradito
(cfr. Cedendo). La ricerca ossessiva
di una storia familiare, di un Principio, che coinvolge gli «avi», le figure genitoriali, la sorella, è la
conseguenza di un sentirsi «orfana», abbandonata sulla scena di un mondo
ostile; deriva da un bisogno di
consistenza, da un’alienazione da se medesima e dunque dal senso di una
perdita del sé (vd. per esempio: «voglio essere membro di Mia sorella/ non
membro dissestato di me stessa»).
3.
L’esergo
In limine, in esergo, alcuni versicoli
pongono il tema del libro: la frantumazione dell’io («frantumata bimba») non è
che il riflesso di una frantumazione della realtà, di un suo collassarsi. La
figlia (il soggetto si vive prevalentemente come figlia, più raramente come
madre, reiterando la ricerca dell’identità in quella delle figure
genitoriali) da piccola ha vissuto un
trauma che si ripete, producendo una condizione di marasma, dallo sdoppiamento
(cfr. Mia sorella) alla perdita di
contatto con la realtà e con gli altri, sino all’autodissoluzione («cerco ogni
notte/ il mio correlativo esatto»). La condizione di disorientamento è
fronteggiata dalla memoria. Tema, questo, già shakespeariano: «Memory, the warder of the brain»
(Shakespeare, Macbeth). L’identità in
crisi ricerca una continuità dell’io nel ricordo, sola garanzia di durata e
consistenza, di presenza del soggetto a se stesso. Per questo molte di queste
poesie sono dei ricordi (d’infanzia soprattutto). In Lumaca, in Soffitta e in
numerosi altri testi, perdita di memoria e perdita di sé coincidono,
producendo una smemoratezza che talora
può persino essere beata (perché può coincidere con un fluttuare irresponsabile, con una felicità «animale»),
ma comunque ha sempre qualcosa di vergognoso («Cado/ nel fango, il fango/
dell’oblio»). A volte nel ricordo si annida un’immagine (di nuovo,
dell’infanzia) che spiega tutto il non-senso dell’esistenza, come accade in una
delle poesie più belle, Al frantoio.
4.
La prima poesia, il «buio» e il «fossato»
Nel primo testo del libro la condizione del
soggetto è già chiara. Il tema è quello dello sguardo nel buio, di chi guarda
per capire e non intende. D’altronde lo sguardo stesso è sbilenco o «storto»:
non illumina la realtà, ma ne resta come allucinato. Per questo lo sguardo è
esso stesso, in molte poesie, tematizzato:
è problematico, posto in questione. Il mondo è visto in visione,
attraverso stati di frantumazione onirica. Lo strumento poetico non è
rivelazione orfica di nulla. In un’altra poesia, Fossato, l’illusione di una espressione poetica naturale e assoluta
crolla di fronte al «fossato» che divide il poter essere dall’essere, il sogno
dalla realtà. La condizione grottesca del soggetto (si veda la conclusione) non
concede alcuna autenticità di canto. Il testo che comincia in prima persona si
chiude in terza. L’io si sdoppia umoristicamente; e l’atto di vedersi nel
grottesco quotidiano funziona da duro contravveleno scacciando ogni aspirazione
romantico-simbolistica.
5.
Surrealismo, onirismo: la scena dell’ assurdo
La condizione di allucinazione e marasma si
riflette in quella onirica, fantastico-delirante, di molti testi: «io stava
come presa da un delirio di voci». Donde gli esiti apertamente surreali del
libro. Ciò non significa però che la realtà sia assente. Anzi, duri,
concretissimi lacerti di realtà oggettiva fluttuano ovunque, ma come assorbiti
in una dimensione allucinata (magari, talora, anche allegramente allucinata),
frastornata e frastornante. I dati reali si caricano così di assurdità. La
realtà dell’assurdo e l’assurdo della realtà sono una cosa sola. Immagini
violente di forza e di crudeltà si intrecciano ad altre di pietà amorosa su uno
sfondo di campagne meridionali, con i loro animali (gli asini, il mulo, il
cane), le loro viottole, i carri, ma anche, più raramente, di case urbane, di
aeroporti, di metropoli. Sono immagini in cui la violenza espressionistica può
persino conciliarsi con una nitidezza quasi classica (come nella bellissima
conclusione di L’evento ) e
l’onirismo assumere una perturbante bellezza come nell’explicit di Aurora: «Raccolgo/ ai piedi di
quell’erta/ un sacco strepitante, mi slaccio/ il corsetto, gli offro il mio
capezzolo».
Lo spazio di queste poesie è fra Sylvia
Plath e Amelia Rosselli, ma con in più una concretezza (talora persino
luminosa) tutta mediterranea. Averla unita al senso di vertigine e di
spaesamento: sta qui l’originalità della scommessa poetica di Erminia Passannanti
(della sua doppia natura, direi, di meridionale oxfordiana). Quella luminosità
mediterranea s’incontra e si scontra con una foschia nordica, e ne risulta
perciò come straniata e persa. E tuttavia resta lì, come una possibilità
frantumata, come un’eco di un mondo possibile e ormai perduto.